Chi non ricorda le difficoltà che da piccoli ci si presentano anche nel fare le azioni più banali? Aprire un barattolo o anche lavarsi i denti sono state azioni difficili e che spesso hanno visto mamme e babbi soccorrere con amore i propri figli. In quella condizione che è l’infanzia, nella quale tutto è da imparare, ci si può concedere il lusso di non preoccuparsi più di tanto. Anche il pensare può essere dedicato al solo diletto: per le cose importanti (come scegliere quale cappottino ci proteggerà dal freddo di una bella domenica d’inverno) ci sono altri che pensano per noi. In molte culture il segno della maturità è dunque sancito dall’uscita da quella condizione di dipendenza. Eppure questa infanzia della ragione non sempre cessa allo scadere di certi tempi. L‘autonomia di pensiero è qualcosa che si conquista a fatica e che mai forse raggiungiamo appieno.
In tedesco “Illuminismo” si dice Aufklärung. La parola andrebbe tradotta più fedelmente come “rischiaramento” e va pensata come un diradare le oscurità del pensare. Rischiarare dunque per chiarificare, chiarire. L’apparente volo pindarico (tra l’infanzia e l’Illuminismo) è appunto solo tale. Nel 1784 infatti, il filosofo Immanuel Kant (forse il più grande illuminista di tutti) dava alle stampe un saggio intitolato Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? nel quale egli rivelava il filo rosso tra l’infanzia del pensiero ed il Secolo dei Lumi. In tale prezioso saggio Kant sosteneva che l’illuminismo fosse appunto “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro“.
Insomma Kant sprona gli uomini a spendersi in prima persona per il conoscere e pensare autonomamente: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo“. L’invito quindi è a scoprire in noi la forza del ragionare e la fatica a volte che il pensare richiede. Nessuno del resto può “imboccarci” come quando eravamo bambini. Ma il filosofo tedesco va oltre. Ribaltando la distinzione tra pubblico e privato sostiene che l’uso privato della Ragione è quello tenuto da un funzionario pubblico nell’amministrare il bene collettivo e dunque irregimentato naturalmente da quelle che sono le esigenze della macchina dello Stato. Di contro l’uso pubblico della Ragione è invece proprio il pensiero responsabile, quello che ciascuno come cittadino ha la possibilità di esprimere di fronte agli altri in quanto tale.
L’auspicio (estendendo la riflessione di Kant al sociale) è dunque che nella società cresca sempre più questo uso pubblico della ragione, la capacità insomma dei privati cittadini di partecipare, in quanto tali, alla dimensione sociale del nostro vivere. E si badi bene che Kant non esorta banalmente a “dire la propria” ma anzi all’opposto egli invita piuttosto al cimentarsi con le difficoltà del fondare un’opinione, al formarsi di un genuino pensiero critico. L’obiezione cinica e realista pare tuttavia facile. Belle parole quelle di Kant, ma riflettono decisamente una concezione ideale e idealizzata della società e del sapere. L’ignoranza, viene detto, dilaga e spesso si annida proprio tra coloro che dovrebbero aiutare a rischiarare le coscienze.
Tuttavia se cessiamo di essere dei semplici interpreti e ci avventuriamo nell’ardito tentativo di affrontare nella quotidianità la sfida lanciataci da Kant, forse quanto scritto finora cesserà di essere solo un esercizio intellettuale. Più precisamente, quanto la scienza moderna è erede dello spirito illuminista di cui parla Kant? Cerchiamo dunque di chiederci se ad esempio gli scienziati, assurti a modello contemporaneo di pensatori razionali, si cimentino in quello che l’illuminista prussiano chiamava uso pubblico della Ragione. In altre parole, quanta consapevolezza c’è, da parte degli scienziati, di essere anzitutto e prima di tutto cittadini? E tra i cittadini essi si rendono conto della responsabilità morale e sociale che hanno? Non si faccia certo di tutta l’erba un fascio. Generalizzare è sempre pericoloso e distorce inevitabilmente alcune realtà individuali. Il punto non è trovare le ovviamente presenti eccezioni. Il punto è porre un freno e possibilmente un rimedio alla sconsolante normalità.
Sperimentazione animale, caso Stamina, nucleare, energie rinnovabili e riscaldamento globale, OGM… i temi sono tantissimi. Su quante di tali questioni osserviamo solo le barricate? Recentemente l’Economist ha dedicato la copertina al fatto che l’operato della ricerca stia sempre più scricchiolando. Il rischio è duplice. Da una parte se la società non si “fida” della scienza la stessa ricerca è in pericolo e potrebbe cessare o essere radicalmente ridimensionata. Ancora più grave, una società senza scienza si apre necessariamente all’oscurantismo più pericoloso. Comunicare la scienza del resto è difficile quanto farla. E non stiamo suggerendo certo agli scienziati di diventare solo divulgatori. Il punto non è la divulgazione. Si tratta piuttosto della relazione tra scienza e società. E di quanto gli uomini di scienza se ne interessino.
Vogliamo davvero pensare che chi è impegnato a scoprire “come va il mondo” non sappia poi come comunicarlo agli altri o spiegare alla società perché fare scienza è importante? La risposta degli addetti ai lavori non può essere “eh, ma è difficile”. Che figura è quella del sapiente racchiuso tra le mura del suo sapere? Un’immagine che ricorda più le logge segrete del ‘600 o gli alchimisti che la scienza moderna. Perché? Tra le ragioni di questo desolante panorama stanno anche motivazioni sistemiche. Com’è organizzata la ricerca scientifica? Come si produce la conoscenza scientifica? Come la si finanzia? Come vengono formati i futuri scienziati?
Sono domande che sia la scienza che la nostra società devono porsi. Al più presto. E tutti noi, scienziati e non, abbiamo il dovere di esercitare l’uso pubblico della Ragione. Se ci pare faticoso, è perché è importante.
di Federico Boem
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