L’ho già detto in passato: il Partito Democratico non ha ancora superato il guado, e probabilmente non ha ancora capito quale sia il progetto che sta alla base del “contenitore”. Lo si è visto bene nel caso Calearo, nella dipartita dei rutelliani e della formazione di Api, nel caso milanese dopo la sconfitta di Boeri, oltre che il celeberrimo caso pugliese alle scorse regionali. Lontani sono i tempi della vocazione maggioritaria veltroniana, a mio avviso necessaria e fondamentale per aprire una nuova fase della politica italiana, nonché una nuova fase partitica, come molti politologi avevano sottolineato all’indomani delle elezioni del 2008.
A tre anni dalla fondazione del PD e a quasi 3 anni dalle Politiche 2008, il Partito Democratico è riuscito a dissipare un enorme vantaggio elettorale, nonché politico. Ha perso l’aura di novità che aleggiava attorno al nuovo simbolo tricolore, ha perso la novità legata alla coesistenza di così diverse culture per un progetto di governo riformista del Paese; ha smarrito la missione per quel progetto. Eppure erano partiti bene i democrats: la fondazione sotto il governo Prodi, le primarie per il segretario partecipate (milioni di elettori-sostenitori) e un risultato elettorale che andava ben più della somma dei voti di Ds e Margherita al Senato e dell’Ulivo alla Camera dei Deputati nel 2006 (pur includendo candidati radicali nelle proprie liste).
Ancor più affascinante è stata la campagna elettorale: fine dell’antiberlusconismo come strumento per accaparrarsi voti (Veltroni non lo nominò mai in campagna elettorale) e idee chiarissime sulle alleanze elettorali. Il PD è autosufficiente, “verso il bipartitismo”, se non fosse che la scelta di lungo periodo sembrava a un certo punto poco attrattiva, considerando che i sondaggi stavano dando i democrats in netto recupero e quindi, per massimizzare i voti, Walter l’Africano accettò di includere l’Italia dei Valori in una coalizione minima data per vincente, o almeno per giocarsela. Gli effetti sono noti a tutti: con il “voto utile” finì fuori la sinistra radicale (Verdi, Sinistra Democratica, Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani) e in Parlamento sembrava ci fosse odore di bipartitismo. Obiettivo raggiunto o quasi quindi. E incredibilmente cominciarono i problemi: nel giro di pochi mesi il PD perde ben due regioni andate al voto anticipatamente, con il Governatore uscente democrats: Ottaviano Del Turco in Abruzzo cede il comando a Gianni Chiodi, PDL, (dopo che il PD aveva sostenuto una coalizione capeggiata da un candidato appartenente all’Idv) e Renato Soru lascia il passo a Ugo Cappellacci (con Berlusconi sceso apertamente in campo per sostenerlo). La sconfitta sarda rappresenta la fine dell’era Veltroni, che lascia la segreteria al suo vice Dario Franceschini. Mesi torbidi aspettano i democrats: alle Europee si attestano al 26,1% contro il 33,1% di 15 mesi prima e riescono a perdere la Provincia di Milano amministrata dal futuro coordinatore della segreteria Bersani, Filippo Penati.
Confezionata la segreteria Bersani, sconfitti Franceschini e Marino nel congresso di fine 2009, i democratici cambiano le strategie (o forse sarebbe meglio dire le tattiche…) passando dalle visioni di lungo periodo veltroniane alle tattiche di breve periodo bersaniane. Nuovo Ulivo, coalizioni stile Cln per liberare il paese dal dittatore Silvio. I mesi di follia democrats sono riassumibili dalle parole del capogruppo PD a Montecitorio Dario Franceschini in un videomessaggio postato sulla sua pagina ufficiale di Facebook. Franceschini prende le difese di Bersani riguardo una possibile alleanza con il Terzo Polo e rilancia l’iniziativa, allargata persino a Vendola.
Nel suo videomessaggio, Franceschini manda al diavolo i motivi fondanti e più innovativi su cui è stato creato il PD. Innanzitutto parte con una durissima requisitoria contro Berlusconi, usando toni molto duri contro l’attuale Presidente del Consiglio. Fin qui tutto lecito, anche se c’è un po’ di nostalgia nel ricordare la campagna elettorale veltroniana. Prosegue dichiarando che Berlusconi non è invincibile, attribuendogli nell’immagine collettiva una posizione di presunta forza che egli stesso sembra temere (caro Dario, Romano Prodi l’ha battuto ben due volte…), per finire avvertendo il “pericolo democratico” che sembra derivare dalla fine del “dittatore” che, disposto a tutto, vuole rimanere costi quel che costi. Avevo già sottolineato settimana scorsa come, logicamente, Berlusconi ha il timone ben saldo dopo la Waterloo delle opposizioni. E qui Franceschini ricorre alla nefasta legge elettorale, ai pericoli delle distorsioni del Porcellum. E anche qui viene da dire: caro Dario, in due anni di governo non potevate cambiarla quella legge? Il tutto per mettere a fuoco forse il vero pericolo che il capogruppo dei democrats a Montecitorio avverte, ovvero una spaventosa maggioranza in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica nel 2013. E “a una situazione di emergenza si deve dare una risposta di emergenza democratica” dice Dario, specificando così il perché di un’alleanza con il Terzo Polo, pur con tutte le diversità del caso. Ma Franceschini, evidenziandone una, mette in luce l’impossibilità di mettere a sistema le idee del PD con gli alleati, ovvero la propensione dei democrats verso un bipolarismo (anche se Veltroni parlava di bipartitismo…) contro l’idea di Casini, che di due poli proprio non ne vuole sentir parlare.
La contraddizione è evidente e la confusione perpetrata dai vertici di Sant’Andrea delle Fratte si riflette nei commenti in risposta al video. E da qui a noi. La novità PD ha retto ed è piaciuta fino a quando è rimasta tale. I problemi, come mostrato prima, sono sorti dopo. Settimana scorsa evidenziavo i veri motivi per cui Berlusconi non ha perso, ovvero la mancanza di una vera alternativa. Il PD è stato a lungo tempo il primo partito di opposizione, prima della fronda interna dei finiani. Non ha capitalizzato per nulla l’apprendimento che dice di aver fatto in mezzo alla popolazione, riproponendo all’elettorato un estenuante tira e molla con Nichi Vendola, corteggiando il Terzo Polo (ma le Regionali pugliesi dicono niente?) in nome di un governo formato Cln. I sondaggi han dimostrato che una coalizione del Partito Democratico sarebbe più attrattiva senza Casini, Rutelli e Fini. Senza contare inoltre i frequenti voti differenti di questi ultimi giorni in Parlamento (Udc e Fli si sono astenuti sia sulla sfiducia a Calderoli che sul ddl Gelmini) che rendono palesi le incompatibilità, nonché i rifiuti già pronunciati dalla controparte.
La ricetta del Lingotto è sicuramente quella cui deve ispirarsi il PD: vocazione maggioritaria, con un progetto serio e condivisibile per il governo del Paese. Si diceva che non si poteva più tornare indietro e indietro sono tornati: è ora di ripercorrere quei passi e fare quel balzo avanti che consegni al paese un governo riformista degno di chiamarsi tale.