“È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.
In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola.
Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione.
In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità.”
(Cos’è questo golpe? Io so, di Pier Paolo Pasolini)
A leggere queste parole di Pasolini, dopo tanti anni, c’è da chiedersi cosa avrebbe scritto a proposito della deriva culturale che ha colpito questo Paese. L’Isola, il PCI, non esiste più. Non esistono più nemmeno i suoi eredi, i suoi intellettuali, i suoi ideali, le sue lotte, le sue conquiste.
Tutto è stato reso così tristemente uguale, così scientificamente inevitabile. Gli ideali hanno ceduto il passo agli interessi e se la speranza è sempre l’ultima a morire, abbiamo già perso i sogni e la passione sul campo di battaglia.
Una battaglia culturale, prima ancora che politica, perché tutti i guasti dell’Italia di cui scriveva Pasolini e l’attuale sono tutti di matrice culturale e sono resi ancora più gravi dall’assenza colpevole di una Sinistra che se non è morta, ha certamente scelto l’esilio. O, peggio, ha scelto il peggio del conformismo reazionario e gli ha applicato il peggio della mentalità comunista, con gli effetti devastanti che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Nell’Italia della Prima Repubblica non c’erano meno scandali, meno ombre, meno ingiustizie di oggi, ma c’era il PCI, il Partito Comunista Italiano, che, checché ne dicano i revisionisti ex, post (ma sempre cialtroni), è stato la più grande scuola culturale di massa di questo Paese. Nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte. Nelle luci e nelle ombre che ci sono in ogni cosa.
E quello che oggi manca alla mia generazione, quella generazione di giovani così tanto accusata di menefreghismo e di pigrizia da parte di quei post/ex comunisti sempre pronti a salire in cattedra e mai bravi a fare autocritica, è proprio questo: non il PCI in quanto tale, quanto quella grande scuola culturale che esprimeva.
Quello che manca a noi giovani, insomma, è un nuovo orizzonte culturale a cui attingere per tornare a riappropriarci, con la passione che dovrebbe contraddistinguerci (e che invece viene spenta da secchiate di realpolitik da chi dovrebbe rappresentarci), di quei sogni e di quegli ideali che hanno animato due secoli di lotte e di speranze. Sogni e speranze che hanno portato gente a sacrificare la propria vita e che, grazie a quella che se Gramsci fosse qui oggi chiamerebbe la generazione dei costruttori di soffitte, sono stati sacrificati sull’altare della legittimazione per andare al governo.
Il PCI era una scuola culturale e politica che faceva paura sia ai sovietici che agli americani: non è un caso, infatti, che sia l’URSS che gli USA avessero pronte precise strategie per l’Italia, nell’ordine di eliminare il suo segretario più amato (la prima) e di attuare un golpe reazionario sulla falsa riga di quello cileno (la seconda).
Il Pci è stato inoltre un riferimento importante, ed in alcuni casi insostituibile, nelle storie individuali di milioni di donne e di uomini del nostro Paese. Una immensa comunità, un paese Partito che si estendeva in tutto il paese Italia e in cui “l’essere compagni” ed avere in tasca la tessera del Pci costituiva un inalienabile diritto di cittadinanza.
In qualsiasi città italiana si trovasse, anche la più sperduta, un compagno del Pci poteva recarsi in una sezione del Partito, sapendo di esservi accolto come un padre accoglie il proprio figlio dopo un lungo viaggio. Quanti italiani delle regioni meridionali emigrati al nord hanno ricevuto la prima accoglienza dalla locale sezione del PCI, quanti contadini hanno imparato “a non togliersi il cappello davanti al padrone di lavoro” e a chiedere, con dignità, il rispetto dei propri diritti, diventando finalmente dei “cittadini” a tutti gli effetti. E quanti hanno imparato a leggere e scrivere, quanti sono morti per l’ideale di una società più giusta.
Non voglio dilungarmi troppo, né dipingere un ritratto tutte luci e niente ombre, perché sarebbe irrispettoso nei confronti di chi il PCI l’ha vissuto per davvero (e io che sono nato qualche mese prima della Bolognina non ho il diritto di spiegarlo ad altri, ma sento il dovere di provare a spiegarlo ai miei coetanei).
La fine del comunismo reale avrebbe portato anche il PCI (la Giraffa, come lo chiamava Togliatti, quell’animale così strano, ma che eppure esiste), sul lungo periodo, ad essere distrutto. L’obiettivo della Svolta, infatti, come testimonia anche un’intervista ad un allora trentaquattrenne Walter Veltroni (chissà se oggi si riconoscerebbe) era quella di non disperdere l’immenso patrimonio ideale, politico e culturale del PCI:
“Io ho passato 20 dei miei 34 anni lavorando a tempo pieno dentro questo partito. Questo PCI è stato per me qualcosa che ha cambiato la mia vita e ai suoi caratteri io sono indissolubilmente legato. La sua grande forza è stata la capacità di scelte difficili. Questa è una di quelle. Non c’è dubbio, era più comodo stare fermi. Così per ci saremmo assunti la responsabilità, per non avere il coraggio di sbagliare, di vedere deperire un grande patrimonio politico e ideale.”
Quel patrimonio politico e ideale, anziché deperire, è stato lentamente distrutto, spazzato via, attraverso la più grande rimozione culturale della Storia italiana recente, il cui ultimo fotogramma si concretizza nella lotta alla parola “compagno”. Non era infatti l’epifania del “Nuovo”, carico di sicuri trionfi e cambiamenti, ma semplicemente il funerale di quello che da una sera alla mattina era diventato “Vecchio”, che avrebbe portato solo ad una stagione di sconfitte e traumi collettivi.
Perché alla fine, come disse Berlinguer nel 1979:
“Secondo qualcuno il nostro partito dovrebbe finire di essere diverso, dovrebbe cioè omologarsi agli altri partiti. Veti e sospetti cadrebbero, riceveremmo consensi e plausi strepitosi, se solo divenissimo uguali agli altri… se decidessimo di recidere le nostre radici, pensando di rifiorire meglio. Ma ciò sarebbe, come ha scritto Mitterrand, il gesto suicida di un idiota.”
E così alla fine è stato. E le migliaia di persone che stanno visitando la mostra del PCI a Roma, organizzata dalla Fondazione Gramsci, che si emozionano al solo rivedere il sorriso di Berlinguer, i quaderni di Gramsci, le immagini di milioni di persone in piazza, è l’ennesima dimostrazione che manca un orizzonte culturale capace di risvegliare le coscienze. E, soprattutto, la passione in noi giovani.
Perché quale passione dovremmo riscoprire, noi giovani, condannati a vivere in una società che l’unica cosa che ci offre è quello di diventare una rotella di un ingranaggio volto solo a favorire la prepotenza, il privilegio, la corruzione
Quindi è per questo che, anche se non sono comunista, anche se non ho mai potuto esserlo, né ho mai potuto militare nel grande Partito Comunista Italiano, scrivo oggi qui, questo articolo, per confessarvi una cosa: che io, nel bene o nel male, fortemente lo rimpiango.
Pasolini, come Gaber, seppe descrivere attraverso poesia e musica ciò che il PCI fu. ed è proprio quello che noi, specialmente i giovani, dovremmo cercare di recuperare tutti quei sogni, ideali e speranze in un periodo così buio e vuoto per il nostro Paese.
Compagni, COMUNISTI. Ed amici che non lo siete più, mi voglio rivolgere proprio a voi che non lo siete più, siete stati capaci ad essere così idioti da voler morire comunisti proletari, per rinascere qualunquisti borghesi ed omologati agli altri. Avete con una decisione del vertice di annichilire chi è morto per un ideale, chi ha preso le manganellate per difendere la classe operaia, chi ha anteposto la BANDIERA ROSSA alla famiglia, a tutti i principi proletari che ci insegnavate alle Frattochie, per voi non anno più valore le frasi ” DAL POPOLO PER IL POPOLO – MEGLIO MORIRE IN PIEDI CHE VIVERE IN GINOCCHIO, perchè voi non venite e non siete del popolo, perchè voi volete vivere in ginocchio attaccati agli scranni o nelle commissioni anche senza governare, vi siete amalgamati e fino ad oggi quel Walter che chiede un governo di centro-sinistra e non un governo con le sinistre perchè non può vincere, ma dove sei cresciuto ? cosa ti hanno fatto mangiare in questi anni, ( ma vai a cagare ) alleati con il tuo amico Fini e simili, critica noi che siamo stati quelli che ti abbiamo costruito. Comunisti di tutta Italia UNIAMOCI come se dovessimo combattere contro un nemico comune. VIVA IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO.
Compagno Farina, basta con questo stupido sentimento di nostalgia del PCI! Se ne abbiamo nostalgia è perché serve! Quindi anziché continuare a piangerci addosso cominciamo ad unire le forze e a ricostituirlo! E, se puoi, pubblica gli interventi che lascio nella sezione dedicata del forum su Berlinguer! Altrimenti chiudilo quel forum! Ricordare Berlinguer serve per lavorare per applicare le sue idee non per inutili piagnistei! Cordiali saluti!
Per quanto riguarda la questione di cui sopra, abbiamo già chiarito. Per quanto riguarda i “piagnistei”, non ne abbiamo mai fatti. E ti darò questa notizia sconvolgente: non sono comunista. Se non altro perchè, anagraficamente, non ha senso esserlo nè diventarlo.