Parlare di ’89 riferendosi all’attuale rivolta che coinvolge tutta l’area maghrebina e buona parte del Medio Oriente non è indicato per descrivere fedelmente un altro cambiamento che sta realmente intercorrendo. Il biennio ’89-’91 ha visto il definitivo tramonto di un sistema di potere, quello bipolare, ai danni del colosso sovietico, lasciando spazio a un sistema di potere di stampo unipolare guidato dagli Usa, designati come la potenza egemone sul globo. Molti teorici di politica internazionale, come Gilpin, parlavano di mutamento già negli anni ’70, pensando che l’attore in declino fosse proprio lo stato americano. La storia ci ha consegnato invece il definitivo tramonto del più grande paese comunista, consegnandoci l’egemonia statunitense che da vent’anni domina sul globo.
La faccia del nuovo sistema unipolare l’abbiamo già vista nel ’91 quando, con una guerra chirurgica, l’amministrazione di Bush Sr. punisce una grave violazione di Saddam Hussein in Kuwait. In quaranta giorni viene sconfitto quello che si credeva il più forte esercito convenzionale dell’area mediorientale, ed è uno shock per tutti. E’ la guerra chirurgica che fa capolino nello scenario globale, fatta da un chirurgo che opera il paziente. E’ la guerra della superpotenza egemone, ormai libera dalla costrizione strutturale del sistema bipolare, che avrà altrettanti successi come in Bosnia e in Kosovo fino agli sciagurati interventi in Afghanistan e Iraq nel ventunesimo secolo, senza aggiungere la presenza in aree geopoliticamente strategiche che prima si trovavano sotto il Patto di Varsavia, con la Nato che ha ingrossato parecchio le sue fila raccogliendo molti ex paesi del blocco sovietico. Questo ovviamente era impossibile sotto un sistema bipolare, l’intangibilità dei confini era uno dei fattori che rendeva tale l’equilibrio di quegli anni. Il baricentro europeo s’è spostato da Berlino a Varsavia, e basti questo mutamento strategico a far capire la portata della transizione. E’ questa la reale dimensione del cambiamento intercorso dopo l’89. Il cambiamento è stato di sistema, di una superpotenza che, a differenza delle aspettative degli analisti, regge e trionfa il confronto.
Quello che sta succedendo nell’area nordafricana è certamente un segnale, ma che non può far supporre un cambio di sistema. L’egemonia statunitense è sicuramente avviata al declino, ma questi recenti accadimenti non possono far pensare che il 2011 possa trovare confronto con l’89, che Tripoli, Bengasi, Tunisi, Il Cairo possano essere Berlino. Piazza Tahir non è Postdamer Platz insomma. Non saranno certo Libia, Egitto e l’Iran, che sono potenze “deboli” seppur innestate in sistemi regionali “caldi”, a far cadere l’egemonia statunitense, sarebbe un’ipocrisia e una sciocchezza sostanziale. Le preoccupazioni per la conservazione dell’egemonia e l’apprendimento continuo per capire quale sarà la successione di questo sistema fa guardare necessariamente ad Oriente, alla Cina, all’India, e probabilmente anche alla Russia e al Brasile.
Il segnale chiaro è il fallimento, peraltro già citato due settimane fa, delle politiche delle amministrazioni Usa e Ue verso l’area mediterranea. Specialmente in Italia si assiste a un’insistente richiesta di presa di posizione contro il massacro dei ribelli in Libia, additando il premier Berlusconi di avere amicizie poco raccomandabili in politica estera. In realtà la politica italiana verso la Libia non è stata poi così diversa nel corso degli ultimi trent’anni. L’Italia,come tutti i paesi del mondo, ha dovuto diversificare le sue fonti energetiche dopo lo shock petrolifero del ’73, trovando alleati proprio nella Libia del colonnello, nell’Algeria e con l’Unione Sovietica, realizzando metanodotti che riuscissero a portare gli approvvigionamenti energetici nella penisola.
L’Italia, come molti altri stati, ha sempre avuto più convenienza ad avere dittature in queste aree calde del globo, proprio perché per quanto ideologicamente anti-occidentali, erano più favorevoli all’accordo, azzerando completamente l’opinione pubblica. La democratizzazione di questi paesi porterà sì una maggior condivisione del potere, con conseguenze però catastrofiche dal punto di vista occidentale. Un potere più condiviso vuol dire una più fedele rappresentanza delle opinioni e quindi una politica estera che dovrà tener conto dei giudizi dell’opinione pubblica. Quindi nessuno ha reali garanzie su quanto saranno veramente ostili questi nuovi paesi verso l’Occidente, verso Israele. A Tel Aviv la preoccupazione è questa, cioè la perdita di attori comunque inclini all’accordo che davano garanzie. In presenza di democrazie non è dato sapere come e quanto il risultato delle politiche portate avanti fin’ora nell’area saranno continuate.
Dietro alle manifestazioni di questi giorni in Libia non ci sono vere e proprie opposizioni organizzate, c’è solo fame e disperazione: di conseguenza ancora non è ancora dato sapere quel che realmente accadrà. Si può supporre non tanto a un ’89, un cambio di sistema, ma ad un’altra ondata di democratizzazione, ma con cautela. La fase è transitoria, e quanto sta accadendo in Egitto è la cartina di tornasole della situazione: al potere ci sono i militari e le libertà costituzionali sono sospese, e in una fase di transizione può anche accadere che ci sia una ricaduta non democratica. Alla luce di questo, è naturale pensare che se Il Cairo piange, Bengasi (conquistata in questi giorni) si può tranquillamente disperare.
Si pone il problema in un’ottica sbagliata secondo me. I governi dell’est erano direttamente e esplicitamente dipendenti da Mosca. Chi abbatteva il muro di Berlino sapeva che ogni mattone tolto era un pezzo del potere sovietico ad andare in pezzi.
Le piazze nordafricane non protestano contro gli USA,non hanno la minima intenzione di mandare in pezzi il sistema egemonico USA in quell’area (anche perchè non ne hanno diretta percezione,l’occidente casomai controlla il nordafrica con l’economia e non con la politica),vogliono solo rovesciare governi che tra l’altro “formalmente” non sono filoUSA.