Le idi di Marzo. No, non è il solito kolossal americano rivisitato sulle res gestae di Giulio Cesare. È un film che parla di Questione Morale, della commistione tra affari, politica e poteri criminali. Parla di arroganza, di prepotenza, di ostentazione del potere, di corruzione: gli ingredienti base del politico dell’età moderna.
A farlo è un americano. No, non è Micheal Moore, si tratta nientepopodimeno che di George Clooney, il mega-divo del cinema hollywoodiano. Il suo film racconta la parabola di un candidato democratico e la sua perdita di innocenza.
Una rarità sulla scena internazionale, visto che il film che parte dalla denuncia di un caso per tentare di descrivere gli stati dell’animo (il fascino del potere che aumenta all’aumentare della corruzione) per arrivare ad affrescare la società contemporanea (egoista, individualista, corrotta alle fondamenta e totalmente amorale) è diventato una rarità.
Eppure George Clooney, accolto entusiasticamente dalla critica, ha riscoperto un genere cinematografico che i registi italiani conoscono molto bene. Dunque c’è da chiedersi, dove sono finiti i registi italiani? Per esempio, che fine ha fatto Moretti? Il suo “Portaborse” aggiornato ai tempi nostri ben descriverebbe il “tengofamiglia” trasversale che anima la politica nazionale, da destra a sinistra. In realtà, già la prima versione ben la descrive.
Ma nel Paese che ha avuto per oltre dodici anni leader dell’opposizione Enrico Berlinguer, la minaccia rossa, quello della Questione Morale e del Socialismo dal volto umano, e per Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che invitava i giovani a prendere a calci i corrotti in politica, c’era proprio bisogno di un americano per raccontare come la corruzione attecchisca anche a Sinistra, la quale fa della lotta agli abusi e alle ingiustizie il suo programma elementare?
Del resto, non c’è da stupirsi: di Enrico Berlinguer il grande cinema non aveva tempo di occuparsi, era troppo impegnato a Ponte Milvio a immortalare i lucchetti dell’amore di Moccia; che a Ponte Milvio ci fosse la sezione del Pci a cui era iscritto il leader più amato della Prima Repubblica è roba da topi di biblioteca. Anzi, visto che nelle biblioteche su Berlinguer c’è poco o nulla, forse roba da siti web (giusto il nostro).
Descrivere l’Italia con le storielle d’amore a cui si prestano anche attori di talento (si veda la parabola di Raoul Bova, che da Ultimo è finito a fare il trentenne che si invaghisce di una minorenne e poi se la sposa quando arriva ai diciotto) forse è merito del clima culturale imperante (il Berlusconismo): dipingere l’Italia col suo vero volto non aiutava nell’impresa di imbonire milioni di Italiani con la speranza della ricchezza per tutti.
Ora che il mito dell’imprenditore che si è fatto da solo si è consumato dopo 20 anni e che l’Italia da “Paese che amo” è diventata un “Paese di merda”, forse ricominceranno a ricomparire al botteghino film come Il Caimano, il Portaborse, il Divo; magari verrà fuori una nuova generazione di registi come Pasolini, attori come Gian Maria Volontè.
Il cinema di denuncia civile degli anni ’70, pura fantascienza a riguardarlo oggi. Del resto, quegli anni sono “bastardi” (Sacconi dixit). Siamo agli sgoccioli della Seconda Repubblica: si spera tanto che nella Terza si affronti finalmente la Questione Morale. Nell’attesa, accontentiamoci di vederla al cinema.
P.S. Proprio perché pare che su Berlinguer nessuno sia interessato a fare un film, ci stiamo organizzando noi. Visto l’andazzo a livello nazionale, però, più che Cinecittà, andremo a presentare il progetto e la sceneggiatura ad Hollywood: è probabile che lì siano più interessati.
…..e i nostri registi? il nostro cinema d’autore?….. ASSENTI INGIUSTIFICATI…!
quattro buffoni gonfiati che non hanno argomenti ……