Nel 1928 Agnelli (padre) volle eternare la Fiat con un grandioso monumento. Lo scultore Eduardo Rubino ne modellò subito una enorme statua, il Faro della Vittoria, collocata sul colle della Maddalena a Torino, e il poeta D’Annunzio dettò la dedica in pompa magna:
“Alla pura memoria, all’alto esempio dei mille e mille fratelli combattenti che la vita donarono per accrescere la luce della Patria e propiziare col sacrifizio l’avvenire, il durevole bronzo, la rinnovante selva, dedicano gli operai d’ogni opera, dal loro capo Giovanni Agnelli, adunati sotto il segno di quella parola breve che nella Genesi fece luce. Fiat lux, et facta est lux nova.”
Quando i poeti, vezzeggiati dalle duchesse e dalle mogli dei ricchi industriali, si volgevano al mondo del lavoro ne vedevano solo il pittoresco paesaggio di ciminiere e di fucine. Il lavoro dell’uomo era per loro la retorica di questa dedica dove la morte dei tanti operai diventava puro vezzo, mille e mille propiziare e sacrifizi. Sui morti, a maggior gloria dei fabbricanti d’armi, una signora tutta vestita da sera, tutta di bronzo, con ali, frasche d’alloro e fiaccole elettriche. Gli italiani guardavano le ginocchia e le braccia tornite della Vittoria di bronzo, ascoltavano trepidanti i discorsi del duce, leggevano le dediche dei falsi poeti e così dimenticavano tutto il resto. Tutto era in ordine, dunque. Stipendiati dalla classe dirigente e imprenditoriale, i poeti avevano venduto le loro parole e la verità di tutti.
Oggi, a difendere i lavoratori, veri e propri “morti” sul lavoro, è rimasta solo la Fiom. Oggi, di fronte alla manifestazione indetta da un sindacato di sinistra, il maggiore partito della sinistra italiana decide di non partecipare. Colpa dei violenti No-Tav. Colpa di Landini, poco telegenico. Ma poi, di cosa meravigliarsi? – chioserà qualcuno. E’ solo il segno dei tempi. Beh sì, oggi tutto è cambiato, non c’è più il grande dittatore Mussolini, non c’è più il grande capitano d’industria Agnelli, non c’è più il grande partito di massa, il Pci. Ci sono ben altri personaggi, ben altre forme di potere molto più sottile e democratico: ci sono i Marchionne e i Monti, c’è addirittura il Terzo Polo.
Quelli che invece continuano ad esserci, sempre uguali a se stessi, sono i novelli D’Annunzio. Li leggiamo tutti i giorni sui più importanti quotidiani nazionali (e nelle loro ammalianti versioni on-line), con le loro analisi grondanti di conformismo e di servilismo, né più né meno di un tempo. Questi giornali si fregiano tutti del titolo di “indipendenti”.
Naturalmente ognuno di essi dipende da qualcuno, ne rappresenta le opinioni, ne difende gli interessi. Quelli dei Monti, dei Marchionne, dei Passera, dei Caltagirone, dei De Benedetti, dei Della Valle, e di tanti altri. Che si permettono il lusso di bocciare, un giorno sì e l’altro pure, questo o l’altro leader politico, questo o l’altro partito, tutta la classe politica, senza distinzioni. Sono una specie di “tecnici” della poesia e della cultura. Tuttavia, i novelli D’Annunzio, scrivendo su giornali non di partito e apparentemente indipendenti, sono altrettanto al soldo dei potenti ma hanno facilità di manovra rispetto a tutti gli altri, rispetto ai “poeti” ufficialmente stipendiati da questo proprietario (Berlusconi) o arruolati da quest’altro partito.
Grazie ai novelli D’Annunzio, il gioco di chi li manovra diventa quanto mai facile, spesso infallibile agli occhi dell’opinione pubblica: è semplice così far bere al lettore la falsa notizia, l’insinuazione provocatoria, l’interpretazione tendenziosa, lo scandalo colorito. L’astuzia dei manovratori di questi giornali indipendenti, grazie alla penna (anzi alla tastiera) dei novelli D’Annunzio, sta proprio qui: nello scoprirsi poco, nel dosare le notizie, nel confessarsi il meno possibile, facendo finta di lasciar parlare i fatti. Anche oggi, come allora, tutto è in ordine, lo spread si abbassa. I falsi poeti, stipendiati dalla classe dirigente e imprenditoriale, hanno di nuovo venduto le loro parole e la verità di tutti. In ultima analisi, al di là delle apparenze, non sono affatto diversi da quel D’Annunzio che nel ’27 era al soldo e riscuoteva, per i minuti piaceri, da Mussolini e dai ricchi industriali torinesi.