Mettiamo il caso che non sopportiate la suoneria di default del vostro cellulare, e che, invece di cambiare la fastidiosa musichetta, decideste di comperare un telefonino ex novo; alquanto illogico, no? Bene.
Ora supponiamo, invece, che il vostro vicino sia stato condannato in via definitiva a 15 anni e 6 mesi per associazione mafiosa, e che gli vengano concessi gli arresti domiciliari a causa del menù del carcere in cui è detenuto; vi “incacchiereste”, vero?
Don’t worry! Sicuramente nessuno di voi si ritroverà in queste condizioni! Ovviamente non perché tutto ciò non sia realmente accaduto (mai sottovalutare il nostro amato “Bel Paese”), ma perché il soggetto in questione non sconterà di certo la pena in un logoro appartamentino in prossimità del vostro (luridi pezzenti!), ma in una lussureggiante villa di Bagheria.
Si sta parlando, infatti, di Michele Aiello, il “re Mida della sanità siciliana”, primo contribuente dell’ isola per lungo tempo, ex braccio economico di Bernardo Provenzano , la cui condanna, nell’ ambito del processo “Talpe alla Dda”, è stata confermata in Cassazione nel gennaio 2011. In particolare nei giorni scorsi Aiello è stato scarcerato perché, come scrivono i giudici del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, «il vitto carcerario non ha consentito un’alimentazione adeguata del detenuto, risultando dal diario nutrizionale la presenza costante di alimenti potenzialmente scatenanti una crisi emolitica e assolutamente proibiti».
Il menù del carcere di Sulmona prevede, infatti, pasta con i piselli e minestrone di fave, alimenti che non possono far parte della dieta dell’ ingegnere in quanto questi soffre di favismo, malattia genetica ereditaria che non permette di ingerire, tra le altre cose, proprio fave e piselli. Ora, senza nulla dire riguardo al menù, non si capisce perché invece di concedere i domicliari, come giustamente sottolinea Nino Di Matteo (pm del processo di primo grado contro Aiello), non si sia proceduto per altre possibili vie, cercando ad esempio di «valutare la possibilità di un trasferimento in un’altra struttura penitenziaria che consentisse di curare i suoi problemi di salute», oppure, più semplicemente, operando nel senso di cambiare il menù del detenuto.
Che le multinazionali di fave e piselli siano “forze” così influenti nell’ ambito delle cucine delle carceri italiane da non permettere un cambio di pietanze all’ interno dei menù? Che alla ormai datata questione morale si affianchi una più appetitosa ed attuale questione culinaria? Resta comunque il dubbio che delle sì fatte pietanze a base di legumi possano andare a ledere la Costituzione, in particolare nella parte in cui questa stabilisce che «la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».
non ho parole!