Ultimamente nel dibattito politico si sente spesso parlare di crescita. A dire il vero, si sentono Monti, i suoi ministri e i vari esponenti di partito solo nominare questa parola, ma concretamente se ne discute poco. Sarà perché il governo non è in grado di fornire una ricetta adeguata che punti alla ripresa? Oppure perché l’esecutivo è ancora concentrato sulle tasse, sulle imposte e sui prossimi tagli alla spesa pubblica?
Nel nostro paese le politiche economiche dei vari governi che si sono succeduti, sono sempre state incentrate sui tributi di ogni genere, sulla loro imposizione e, a volte, sulla loro abolizione. Sicuramente il motivo è da ricercare nel fatto che da più di vent’anni il debito pubblico aumenta a dismisura ed è necessario tentare di ridurlo. L’azione dei governi però, non può limitarsi ad un mero controllo del debito, in quanto la politica economica deve rispondere in primo luogo al potenziamento dell’economia reale.
Per anni abbiamo assistito ad un decadimento della politica sempre più ostaggio di uomini politici incapaci di fornire soluzioni ai problemi della disoccupazione o della diminuzione del potere d’acquisto. Inoltre, spesso e volentieri, la composizione politica di alcuni governi ha reso impossibile realizzare programmi in parte ambiziosi (si pensi al programma dell’Unione del 2006).
Si presuppone che i ministri di un governo tecnico siano più competenti di alcuni politici e che abbiano più libertà nell’effettuare certe scelte. Ahinoi, siamo in Italia: i nostri tecnici sono i rappresentanti di un’élite ristretta, inadatti ad effettuare scelte coraggiose e innovative perché troppo distanti dalla realtà e dal quotidiano.
In una fase recessiva come quella che stiamo vivendo, sicuramente la prima cosa a cui pensare è come fare ad aumentare la domanda. Occorre attuare una politica di redistribuzione dei redditi per garantire più equità e meno sprechi (i super redditi dei menagers del settore pubblico sono l’esempio più eclatante). Inoltre è necessario puntare tutto sulla ricerca e sull’innovazione. E’ giunto il momento di investire nell’università e nella ricerca, di finanziare e valorizzare i ricercatori italiani e i loro progressi nei campi più svariati. Anche la scuola deve avere un ruolo chiave in tutto ciò: gli istituti superiori tecnici e professionali di secondo grado devono essere in stretto contatto con le realtà aziendali in modo che al termine dei cinque anni di studio, i giovani abbiano già acquisito le competenze necessarie per entrare ufficialmente nel mondo del lavoro.
Gli investimenti che si prevedono a favore delle imprese devono avere un fine ben preciso: rafforzare i settori in difficoltà (in Italia, ad esempio, le aziende tessili sono state colpite più delle altre dalla crisi) e potenziare gli altri. Ovviamente il sud rappresenta un’enorme fonte di talenti e potenziale in cui è doveroso creare un ambiente più favorevole alla crescita. Solo in questo modo si potrà mettere fine al fenomeno dell’emigrazione dal meridione al settentrione.
Quindi l’austerità che mira al solo rigore non è sufficiente poiché costituisce una minaccia per l’economia. Gli elementi necessari per avviare una nuova fase sono da ricercare nella fiducia e nella solidarietà da parte delle istituzioni, ma anche nella volontà di voler creare un nuovo modello sociale che consideri lo sviluppo economico non solo coincidente con l’aumento dei profitti, ma sopratutto con il miglioramento della qualità della vita.