Mi ha sempre un po’ fatto ridere quest’idea, più che altro giornalistica, dei cervelli in fuga. Perché muoversi, per uno studente o uno scienziato, è in realtà fisiologico (pensate che il progetto ERASMUS ha già 25 anni), qualcuno un po’ più pragmatico direbbe anche che “fa curriculum”. Il precariato è l’essenza dell’esperienza del ricercatore e in genere si va dove capita, o meglio dove c’è uno stipendio (buono) e un progetto interessante. In quest’ottica si comprende meglio come il vero problema dell’Italia, rispetto agli altri Paesi, non siano tanto le uscite quanto il bilancio in negativo con le entrate di nuovi ricercatori, indipendentemente dalla loro nazionalità.
L’altra faccia della medaglia è che chi se n’è andato in piena crisi, per i molti che invece sono rimasti, è solo un codardo: un giovane con un minimo di preparazione e con voglia di lavorare e impegnarsi, magari anche in politica, dovrebbe contribuire alla rinascita del proprio Paese e non andarsene lasciando i compatrioti nel pantano. Anche a me, nel mezzo di una discussione in merito a questa immagine, è arrivata la fatidica frecciatina “è facile parlare dalla Germania vero?!” (ciononostante rimango convinta che il ritorno der puzzone non sia cosa da augurarsi, né da dentro né da fuori).
La frase, come molte altre di simile significato, più che irritarmi mi ha fatto riflettere: un po’ perché a sorpresa noto che in Italia si intuisce ben poco che anche nel virtuoso nord tira una brutta aria, un po’ perché riscopro come la mancanza cronica di lavoro logori la mente e il fisico, esperienza già provata in prima persona.
La crisi ha infatti cambiato profondamente anche il nostro modo di vedere il lavoro: chi non ce l’ha si deprime, chi ce l’ha pure, perché lavora tanto per non far torto ai meno fortunati, che è un po’ come quando i genitori ci costringevano a spazzolare il piatto perché i bambini in Africa muoiono di fame. Oggi vai a lavorare! non è un offesa, ma un augurio cortese.
Abbiamo perso la socialità del lavoro, la capacità di solidarizzare con i colleghi, con chi svolge un’attività differente dalla nostra o con i più anziani, tanto che affamati dal precariato ci siamo lasciati derubare dell’articolo 18. Ho pensato a me dal punto di vista dei compagni rimasti e ne ho ricavato una brutta immagine, che non corrisponde al valore del lavoro che mi è stato insegnato e che ho coltivato, ma a una posizione privilegiata, priva di meriti e avara di diritti. Così, senza che me ne accorgessi, pur con tanta voglia di staccare la spina per qualche giorno, il ricordare con nostalgia le serate di fine estate sulle spiagge del mediterraneo si è tramutato in peccato mortale, come quando tra lacrime e rimproveri lasciavo nel piatto i cavoli bolliti. Eppure voglio pensare che esista almeno un bimbo in tutta l’Africa a cui sembrano disgustosi e un disoccupato in tutta Italia a cui piaccia ancora fare il bagno ad agosto…