Tony Nicklinson è morto due giorni fa all’età di 58 anni. Affetto dalla sindrome Locked-in aveva chiesto l’eutanasia, ma gli era stata negata dalla Corte di Londra appena una settimana prima. Secondo la BBC e The Guardian Tony era completamente devastato dalla decisione, tanto da aver iniziato lo sciopero della fame, cosa che d’altra parte non l’ha ucciso: la morte è arrivata a causa delle complicazioni di una polmonite.
In Italia è possibile compilare un testamento biologico online tramite l’associazione Luca Coscioni o uno di proprio pugno secondo ciò che prevede la legge. Esistono poi disposizioni sul consenso informato: paradossalmente, però, alimentazione e idratazione non sono considerate terapie, ma forme di sostegno vitale e non sono quindi soggette alla volontà del paziente o del suo fiduciario (cfr. DDL Calabrò).
L’argomento è enormemente complesso. Uno dei punti certi è che l’eutanasia in Italia è vietata.
…ma è praticata. The Lancet ha pubblicato nel 2000 i risultati di un’indagine sui trattamenti di fine vita praticati da alcuni neonatologi (1239, l’89% di coloro a cui furono somministrati i questionari anonimi) di otto Paesi europei (Italia, Spagna, Lussemburgo, Germania, Francia, UK. Olanda e Svezia). La maggior parte dei medici affermò di non aver somministrato ulteriori cure a pazienti ritenuti terminali, mentre più basso risultò il numero di chi aveva somministrato farmaci con l’intento di terminarne la vita (solo in Francia e in Olanda risultò essere pratica frequente, in Italia il 2% dichiarò di averlo fatto almeno una volta). Con la stessa metodologia è stato realizzato anche uno studio dell’Università Cattolica di Milano: in questo caso il 3.6% dei rianimatori milanesi ha detto di aver praticato l’eutanasia attiva almeno una volta, mentre secondo il Critical Care Medicine (1999) il 13% dei rianimatori italiani ha somministrato farmaci con l’intento di accelerare la morte del paziente. Ancora secondo The Lancet, ma stavolta nel 2003, il 23% dei decessi in Italia era stato preceduto da una “decisione medicale sul fine vita”, quattro anni prima nell’articolo Attitudes of Italian doctors to euthanasia and assisted suicide for terminal ill patients si sosteneva che il 17-9% dei medici italiani è disposto a praticare l’eutanasia attiva e/o il suicidio assistito, 8 medici su 10 sono invece disposti a interrompere il sostentamento vitale.
Quello che emerge è che da noi l’eutanasia attiva non è pratica frequente, ma certamente esiste e su questo pur limitato fenomeno sociale i cittadini meriterebbero una risposta anche da parte delle istituzioni, ad esempio alle seguenti domande:
1) Questi medici devono essere condannati per omicidio e quindi, come sosteneva D’Ambrosio, si devono fare tutte le verifiche del caso, autopsie comprese? Il fatto che si venga a conoscenza di un reato, anche se da questionario anonimo, non ha nessuna conseguenza penale?
2) Esistono delle disparità di trattamento, ovvero se la professione medica è relativamente libera i diritti del malato dovrebbero invece essere uguali per tutti, perché allora il malato terminale che incontra un medico che pratica clandestinamente e illegalmente l’eutanasia può usufruirne e un altro no?
3) Nei casi di eutanasia, con quali modalità vengono somministrati farmaci che provocano la morte del malato? Chi decide? Il medico, il medico con la famiglia, il malato? Il malato, nel caso in cui non fosse stato in grado di decidere per se stesso al momento del decesso, era a conoscenza della possibilità che gli venisse praticata l’eutanasia? Ne aveva fatto richiesta in precedenza? Se sì come?
Prima del dibattito etico, certamente necessario, è indispensabile fare chiarezza su quello che è un fenomeno già presente e non regolamentato. In Europa c’è già un precedente, l’Olanda, che introdusse nel 1990 le prime regolamentazioni proprio a seguito del Remmenlink Report, l’indagine ufficiale del governo olandese sull’eutanasia clandestina.