La tassonomia della cannabis è tutt’ora oggetto di controversie: potremmo dire che esistono due specie di cannabis, la sativa e l’indica (Lamarck, 1783), ma attualmente in molti considerano la cannabis indica una sottospecie della sativa. La canapa indiana è teoricamente quella dalle cui infiorescenze si ricavano l’erba e l’hashish, a causa del più alto contenuto di Δ-9-THC (o semplicemente THC).
Più di qualcuno (tipo Repubblica che sbaglia anche l’anno) sostiene che la legge Cossiga del 1975 e il DPR 309/90 proibiscono la coltivazione di entrambe le specie, cosa non vera: il testo contiene sempre la dicitura cannabis/canapa indica. Il fatto è che esiste un problema scientifico di classificazione che diventa importante solo nell’ambito del proibizionismo, creando un circolo vizioso da cui è difficile uscire.
La discriminante tra canapa da fibra e canapa da droga si basa attualmente sul contenuto di THC: riconoscere le due piante a occhio è infatti praticamente impossibile. Benché le varietà normalmente selezionate per le proprietà psicotrope siano in genere più piccole e producano più infiorescenze, si possono trovare piante da droga in tutto simili a quelle da fibra, spesso proprio per una necessità di camuffamento. D’altra parte determinare il contenuto di THC di un campione di piante di cannabis non è cosa semplice e può accadere che alcune varietà, attualmente coltivate come canapa da fibra in Europa, superino i limiti previsti dalla normativa e possano quindi essere considerate illecite. Questo limite sperimentale, che purtroppo non siamo ancora in grado di superare, ha creato e crea molta confusione. Si è innescato perciò un processo per cui dagli albori del proibizionismo (anni ’70) la coltivazione di canapa da fibra è praticamente scomparsa e con essa anche la varietà di sementi, tanto che alcune sono inserite nelle tabelle UE fra quelle coltivabili, ma nella pratica sono difficilmente reperibili.
Oggi l’Unione Europea prevede una ripresa di questo tipo di coltivazione, un tempo molto diffusa anche da noi (eravamo il secondo produttore mondiale dopo l’URSS), sia per l’ingente quantità di prodotti ottenibili da un’unica pianta (carta e fibre tessili in primis, ma anche oli, mangimi, saponi, vernici, colle, ecc…) sia perché si tratta di una coltura molto semplice da praticare, adattabile a diversi tipi di clima e di terreno e che non richiede accorgimenti particolari. Ma l’abbandono della coltivazione della canapa nell’esatto momento in cui si sviluppava e diffondeva il settore delle macchine agricole ha finito per renderla oggi poco appetibile, perché il processo di lavorazione è rimasto fermo a mezzo secolo fa.
Nonostante i tanti progetti e finanziamenti previsti dall’UE e dal nostro Paese, la possibilità di essere arrestati e di subire successivamente una condanna penale (entrambe a completa discrezione delle forze dell’ordine e della magistratura) sono deterrenti troppo forti: il gioco, insomma, non vale la candela.
Sembra banale dirlo, ma visti i notevoli limiti scientifici nel soddisfare le esigenze di normative così rigide, finché la cannabis a uso ricreativo resterà illegale la ripresa della coltivazione della cannabis da fibra non ci sarà. Il problema della distinzione dei due tipi di piante, infatti, sarà fondamentale solo finché quella da droga sarà legata a un mercato illecito, così come per ogni nuova serratura ci sarà sempre un ladro in grado di aprirla.
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