Finalmente dal 6 Novembre esce anche nelle sale italiane il nuovo film di animazione targato Studio Ghibli, La Collina dei Papaveri, che vede per la seconda volta alla regia Goro Miyazaki, figlio del maestro Hayao (sua la sceneggiatura, insieme a Keiki Niwa), dopo I Racconti di Terramare.
Siamo nel 1963 a Yokohama, a un anno dalle Olimpiadi di Tokyo. Umi è una sedicenne che ogni mattina issa due bandiere di segnalazione marittima in memoria del padre, che non ha più fatto rientro dopo la guerra di Corea. Shun ha 17 anni, è il “direttore” del giornalino scolastico e uno degli occupanti del Quartier Latin, un vecchio edificio che i ragazzi usano come luogo di ritrovo e per le loro attività extrascolastiche. I due ragazzi si incontrano e si innamorano fra la scuola e il Quartier Latin, ma la loro relazione è seriamente minacciata da una delle tipiche situazioni famigliari che si instaurarono in Giappone durante e dopo la guerra. Mentre Umi e Shun devono far fronte alla difficile combinazione di amore e buon senso, il Quartier Latin rischia di venire demolito per far posto a una nuova struttura. I ragazzi che lo frequentano decidono quindi di tirarlo a lucido e di invitare il signor Tokumaru (il più importante finanziatore della scuola) a visitarlo, affinché si renda conto che la sua distruzione significherebbe perdere la memoria del passato e non avere quindi modo di costruire un futuro migliore.
Ritorna prepotentemente uno dei temi tanto cari alla produzione di Miyazaki, la necessità di trovare un equilibrio dinamico fra passato e presente, fra ambiente naturale e attività umana, senza però fare ricorso allo stile fantastico di altri capolavori come Principessa Mononoke e Nausicaa della Valle del Vento, ma utilizzando una accuratissima ricostruzione del periodo storico.
La storia d’amore tra i due studenti (mi sembra di vivere un melodramma, dirà Shun a Umi) è l’espediente per raccontare le rivolte studentesche dal punto di vista orientale: se negli States si apriva la strada agli hippy, a Malcom X e all’occupazione di Berkely, il Giappone viveva una condizione più difficile (un Paese raso al suolo dai bombardamenti e occupato dagli americani) in un contesto culturale dove il fare, il costruire e ricostruire era più importante degli slogan e delle manifestazioni di piazza. Ma i risultati in termini di benessere e di indipendenza dalle potenze straniere non tardarono ad arrivare: il boom economico nel 1963 era alle porte.
Se da una parte il film è utile per avere un quadro di un ambiente e un periodo storico poco noto anche al più attento degli occidentali, dall’altra presenta contenuti universali su cui non è facile dissentire. La democrazia non è la dittatura della maggioranza è un principio che insieme alla salvaguardia della memoria condivisa e delle nostre tradizioni abbiamo dimenticato troppo spesso anche in Italia, e le conseguenze le stiamo tutte pagando adesso.
Apprezzabile anche la colonna sonora di Satoshi Takebe, mai scontata e mai fuori luogo, in grado di riproporre la musica popolare giapponese strizzando l’occhio al jazz.
Il film, tratto dal manga Kokurikozaka kara di Sayama e Takahashi, sarà distribuito da Lucky Red, è già stato presentato al Festival di Roma, al Future Film Festival di Bologna (in giapponese con sottotitoli) e in anteprima in italiano al Lucca Comics.