Enrico Letta, metafora italiana

di Pierpaolo Farina

Lasciamo perdere l’elenco di quello che non va in Enrico Letta, a partire dal non sapere chi sia meglio tra Craxi e Berlinguer “perché non li ho conosciuti di persona” (intervista a Sette Magazine, agosto 2007). Come se ci volesse la conoscenza personale per farsi un’idea tra i due.

Faccio una semplice considerazione: SOLO in Italia i corresponsabili di una disfatta politica vengono promossi da colonnelli a generali. In qualsiasi altro paese, di fronte a sconfitte molto più modeste e di misura, ci si ritira a vita privata e non si compare più in pubblico. In Italia, invece, più accumuli sconfitte, più sembra tu sia adatto alla leadership, soprattutto del centrosinistra.

Enrico Letta presidente del Consiglio? E subito giù i media “cooperanti” (come li vuole il presidente della Repubblica) a incensare l’ex-vice di Bersani che ha portato il suo partito al minimo storico, ben lontano dal 33% di quel Veltroni considerato la più grande delle sconfitte. Dimissioni dalla segreteria e approdo a Palazzo Chigi, con i voti di Silvio Berlusconi. Un genio, secondo il piccolo Letta, tifoso del Milan e con il cuore vicino allo zio Gianni, eminenza grigia del Cavaliere.

Famoso più che altro per aver costruito, in questi anni da vice-segretario, le fortune elettorali di Beppe Grillo con esternazioni del tipo: “Cari elettori, se non volete votarci, votate PDL piuttosto che votare Grillo“. Sul lungo periodo s’è capito perché: sul suo nome sono più d’accordo a destra che a sinistra. E si capisce: da sotto-segretario ha fatto di tutto per tutelare Rete4 contro Europa7 davanti alla Corte di Giustizia Europea.

Uno così, all’estero, l’avrebbero mandato a casa tempo zero, senza nemmeno un telegramma di saluti. Qui in Italia lo fanno capo del governo. Com’era? Ah, sì, la meritocrazia. Già, già.