Sono passati 29 anni da quel tragico 11 giugno 1984. Alle 12:45, in un italiano stentato, che tradiva la commozione degli stessi medici per la tragedia che si era appena consumata, “L’onorevole Enrico Berlinguer… è mancato di vivere.” Mi sono riguardato negli ultimi 4 anni e mezzo parecchie volte i video dei suoi funerali, il video di quell’ultimo comizio, i video di quanto andava in televisione. E penso avesse ragione Vittorio Foa quando diceva che Enrico Berlinguer era in violento contrasto con l’immagine consueta dell’uomo politico. Non c’è paragone alcuno che si possa fare con chi oggi ne ha preso il posto: né politico, né ideale, né tanto meno morale.
Di statura media, magro, con giacche sempre un po’ larghe, la cravatta raramente a posto, una gestualità semplice ed elegante, uno sguardo penetrante e severo, un volto provato dalla fatica, ma capace di arrendersi in un sorriso dolce, che diceva più di tante parole, che descriveva meglio di tante biografie. Enrico Berlinguer si offriva all’interlocutore quasi con reticenza, come per non disturbarlo, dava l’impressione di essere fragile, ma quando iniziava a parlare, lentamente e con un accento che non lasciava dubbi sulle sue origini, la voce era bassa, il suo tono dimesso, la sua gestualità timida e quasi impacciata, voleva convincere, ma senza arroganza, spiegare, ma senza insegnare. Passione, rigore, intelligenza si coniugavano ad una sincerità disarmante che fece dire ad Enzo Biagi: “Sentivi che credeva a quello che diceva”. Una piccola cosa, ma che in politica è grande come una montagna. La sua personalità fortissima e il suo carisma incutevano rispetto. L’assoluta moralità dei suoi comportamenti incuteva quasi un timore reverenziale negli avversari.
Era convinto che gli uomini di potere, quale lui era, dovessero dare l’esempio e utilizzare quel potere non per se stessi, ma per gli altri. Era convinto che per rappresentare la classe operaia non si potesse vivere con uno stipendio dieci volte maggiore a quello di un operaio metalmeccanico, tanto che si sentiva privilegiato perché rispetto agli altri compagni prendeva in aggiunta anche 200mila lire di indennità di segretario del partito.
Noi ragazzi della generazione nata dopo la caduta del Muro di Berlino dobbiamo ad Enrico Berlinguer molto più di quanto siamo disposti a riconoscergli: ci ha insegnato che è possibile dare tutto, nella vita, senza chiedere in cambio nulla ed essere felici lo stesso. Ci ha insegnato che non è vero che sono tutti uguali, ma che dipende da noi se vogliamo diventare uguali agli altri. Ci ha insegnato, lui che era così timido e riservato, che le nostre debolezze personali, i nostri difetti, possono diventare i nostri punti di forza, soprattutto quando in gioco ci sono i diritti dei più deboli, dei poveri, degli sfruttati e degli emarginati.
Ci ha insegnato che si possono fare tante cose, anche usando pochi soldi, come faceva lui che riduceva tutto all’essenziale: che poi è quello che facciamo esattamente noi con Qualcosa di Sinistra ed enricoberlinguer.it.
Dalle immagini strazianti di quel comizio, dalla sua tenacia e cocciutaggine a rimanere fino alla fine su quel palco, da quell’invito che fu detto anche per noi che non eravamo ancora nati (Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini), Enrico Berlinguer ci ha testimoniato questo: che la politica è Passione, Coraggio, Idee, ma non è niente se non è fatta per gli altri.
Alberto Menichelli, la sua ombra per 15 anni, mentre scrivevo “Casa per Casa, Strada per Strada” mi ha confessato, tra le lacrime:
«Non mi sono mai arreso, mai, a quello che dicevano i medici, i compagni. Quasi per consolarmi spiegavano che se sopravviveva restava infermo, paralitico. Per me, pure infermo andava bene. Invece… L’ultimo viaggio insieme l’abbiamo fatto sull’aereo di Pertini. Con lui, lasciamelo dire, è morto pure un pezzo di Alberto Menichelli».
Noi non potevamo saperlo, perché non eravamo ancora nati. Ma quel giorno è morto anche un pezzo di noi stessi.