Il 23 settembre 1973, solamente dodici giorni dopo il golpe militare di Pinochet, moriva a Santiago del Cile Ricardo Eliezer Reyes Basoalto. Questo nome dice poco, probabilmente, perché lui, per tutti, era Pablo Neruda.
A stroncarlo, a soli 69 anni, fu ufficialmente un cancro alla prostrata. Sì, ufficialmente, perché in realtà si trattò, secondo le recenti dichiarazioni di quello che fu il suo autista, di un omicidio, probabilmente ordinato da Pinochet stesso e compiuto da un agente CIA, tale Michael Townley, con un’iniezione letale allo stomaco.
In quegli stessi giorni, mentre il Poeta si trovava nella clinica Santa Maria in cui poi si sarebbe spento, le sue proprietà furono devastate, durante quelle che venivano definite “perquisizioni”; un gesto simbolico teso a sfregiare la sua immagine, sempre su ordine di Augusto Pinochet.
Ma perché la dittatura attaccò così duramente Pablo Neruda? Forse una giunta militare e repressiva che schiacciava ogni tipo di opposizione temeva la “forza delle parole”?
Forse. O forse temevano la visibilità internazionale che un Premio Nobel per la Letteratura (assegnato a Neruda nel 1971) certamente aveva. Ma, più di tutto, temevano i suoi ideali: Pablo Neruda era infatti fieramente comunista. Nel 1970, il Partito Comunista Cileno propose la sua nomina a Presidente della Repubblica, salvo poi entrare in Unidad Popular, sostenendo la candidatura di Salvador Allende.
Per la sua adesione al comunismo, fu duramente osteggiato, sia all’estero che in patria: fu costretto all’esilio dalla dittatura di Videla, il quale mise fuori legge il Partito Comunista e fece decadere i suoi rappresentanti istituzionali, tra cui proprio il senatore Neruda. Nei tre anni (dal ’49 al ’52) dell’esilio visse anche, per un breve periodo, in Italia (sulla permanenza a Capri del Poeta è famoso il film “Il Postino”, l’ultimo interpretato dal grande Massimo Troisi).
L’opposizione al regime di Pinochet non fu mai molto forte, e non sarebbe potuto essere altrimenti: tutti i partiti di sinistra furono fin da subito dichiarati illegali e i suoi sostenitori e attivisti uccisi e torturati, soprattutto nei giorni immediatamente successivi al golpe. Opporsi apertamente ad un regime forte e con un pieno sostegno internazionale come quello cileno era pressoché impensabile.
Ma, nonostante questo, ci fu un momento, forse l’unico, di certo il più forte, in cui i pochi sopravvissuti della sinistra cilena si fecero vedere, si fecero sentire: fu il funerale di Pablo Neruda.
Tra due ali di militari, con fucili e mitragliatrici spianati, il corteo funebre procedette per le vie di Santiago, portando garofani rossi e intonando l’Internazionale e cori in ricordo di Neruda, del Presidente Allende e di Victor Jara, tutti tragicamente scomparsi in meno di due settimane.
Se i militari avessero aperto il fuoco, come sarebbe stato tuttavia prevedibile, vista la durezza della repressione, sarebbe stata una carneficina. Ma non lo fecero. Probabilmente fermati dalla consapevolezza che un tale gesto avrebbe causato il biasimo dell’intera comunità internazionale, vista la fama di Neruda e la presenza di giornalisti stranieri a documentare l’evento.
Fu come un sogno, una rappresentazione irreale: centinaia di persone che camminavano circondate dai loro stessi aguzzini, ma nonostante tutto cantano la loro fede in una causa, la causa che era stata di Neruda, di Allende e di tutti coloro che avevano creduto in quella rivoluzione (democratica, ma fu senz’altro un evento rivoluzionario) iniziata con le elezioni presidenziali del 1970, e ricordano piangendo i loro martiri per le strade di una città che da dodici giorni non può più essere la stessa.
Fino al ritorno alla democrazia, avvenuto nel 1990, le opere di Neruda furono bandite, nel suo Paese natale.
Proprio quest’anno un giudice cileno ha disposto la riesumazione della salma, per chiarire definitivamente le cause della morte. Lo stesso giudice ha anche ordinato di rintracciare Michael Townley, il presunto assassino del Poeta.
La gente camminava in silenzio. D’improvviso qualcuno gridò rocamente il nome del Poeta e una sola voce a piena gola rispose Presente! Ora e sempre! Fu come avessero aperto una valvola e tutto il dolore, la paura e la rabbia di quei giorni fossero usciti dai petti e circondassero la strada e salissero in un terribile clamore fino ai neri nuvoloni del cielo. Un altro gridò: Compagno Presidente! E tutti risposero in un unico lamento, pianto di uomo: Presente!
A poco a poco il funerale del Poeta si tramutò nell’atto simbolico di seppellire la libertà.
Molto vicino ad Alba e a suo nonno, i cameramen della televisione svedese filmavano per inviare al gelido paese del Nobel la visione spaventosa delle mitragliatrici appostate ai due lati della strada, le facce della gente, la bara coperta di fiori, il gruppo di donne silenziose che si accalcavano alle porte dell’obitorio, a due isolati dal cimitero, per leggere la lista dei morti. La voce di tutti si levò in un canto e l’aria si riempì delle frasi proibite, gridando che el pueblo unido jamàs serà vencido, fronteggiando le armi che tremavano nelle mani dei soldati. Il corteo passò davanti a una costruzione e gli operai, gettando a terra i loro strumenti, si tolsero il casco e formarono una fila a testa bassa. Un uomo marciava con la camicia lacera ai polsini, senza gilé e con le scarpe rotte, recitando i versi più rivoluzionari del Poeta, con le lacrime che gli scendevano sulla faccia.
La casa degli spiriti, Isabel Allende.