Che in questi ultimi 20 anni il sistema politico italiano abbia subito una mutazione genetica profonda è un fatto inconfutabile. Sono scomparsi i vecchi ma efficienti partiti di massa del Novecento, sono scomparse le ideologie, sono scomparsi i militanti. Allora cosa rimane nella politica italiana?
Sembra passato un secolo da quando Arend Lijphart analizzava, con estrema lucidità, le categorie politiche, partitiche e istituzionali del Novecento. Eppure era il 1999 e l’opera “Patterns of Democracy” sembrava essere non solo un’analisi di quanto era accaduto fino a quel momento ma anche, in qualche modo, la predizione di quanto si pensava potesse essere la politica del XXI secolo. E invece il più grande politologo della seconda metà del ‘900 prese, a quanto pare, sbagliò più di qualcosa.
Il nuovo secolo, specie in Italia, ci ha messo di fronte a forme di rappresentanza completamente sconosciute, difficili da decifrare. Non più solo il nuovo format del partito-azienda (Forza Italia) ma anche qualcosa di sconosciuto dall’altra parte, a sinistra. Il crollo del Muro di Berlino nel 1989 ha messo il più grande partito comunista d’Europa di fronte a una scelta alternativa: scommettere di nuovo sul valore della partecipazione attiva, della militanza, della modernizzazione delle politiche pubbliche, di una proposta di “visione” innovativa e costante; oppure, seconda alternativa, “elettoralizzare” il partito, rendendolo leggero, quasi un contenitore da utilizzare solo in tempo di urne e, peraltro, con risultati non del tutto certi. Allora venne scelta la seconda strada.
I calcoli erano errati. La sinistra, da quella scelta, non si è più ripresa. Il partito leggero è semplicemente diventato gassoso. La burocrazia interna si è ingigantita. E’ stata persa la bussola delle priorità. A questo si è aggiunto un evento che pochi avevano messo in conto. La crisi economica iniziata nel 2008 rispecchia una più ampia crisi di sistema: non solo delle strutture di produzione capitalistico-finanziaria ma anche, e soprattutto, delle strutture di pubblica rappresentanza: lo Stato e, con esso, i partiti politici.
E’ questo, in termini concreti, il nocciolo duro della crisi politica che già 20 anni fa la sinistra avrebbe dovuto riconoscere e a cui avrebbe dovuto proporre alternative concrete , anche radicali. Il grande paradosso nostro e di tutta la sinistra europea e mondiale è quello di non aver saputo cogliere, per debolezza d’analisi e per inerzia politica, la grande opportunità offerta dalla crisi del “turbocapitalismo” e dalle sue lampanti distorsioni, persino antropologiche.
Invece di lanciare un nuovo forte discorso, capace di chiarire le responsabilità della crisi e di incrociare la domanda di nuova politica che saliva da ogni dove, siamo ripiegati in trincee difensive o nella trappola delle ricette ‘oggettive’, indiscutibili, quelle caldeggiate dal FMI e dalle troike varie, come rintanandoci in un’edulcorante illusione che questi attori non siano, in fin dei conti, i principali responsabili oggettivi della crisi stessa. Nel più grande partito progressista italiano, il PD, sulle cruciali questioni squadernate dalla crisi (il crescere delle disparità sociali, la governance democratica globale, crescita sostenibile, nuove domande di partecipazione) è stata molto più evidente l’afasia e la subalternità passiva che non la capacità di proporre un nuovo progetto. Non solo qui da noi, certo. Tutta la sinistra europea ha mancato alla prova. Le recenti elezioni tedesche ne sono la dimostrazione piena.
C’è qui per noi un grande problema di cultura politica, di visione aggiornata del mondo e dei suoi rapporti di forza. Manca ormai da anni un’analisi del potere finanziario-comunicativo-industriale. Il PD gode dalla sua nascita di un consenso problematico, non solidificato, non “strategico” se così vogliamo dire. L’errore principale è stato innanzitutto non percepire, non riconoscere questa fragilità strutturale e non lavorare con determinazione sulla “qualità” dell’offerta politica. E’ stato ripetuto per l’ennesima volta l’errore atavico: si è discusso troppo di candidati e di componenti interne, mentre si poteva e doveva far leva su una domanda di senso e di futuro che proprio la crisi aveva sollevato, in ogni parte del Paese.
Ho sempre pensato che, per farcela, non solo il PD ma tutto l’universo dei soggetti politici di sinistra, dovesse essere innanzitutto “colto”, non nel senso elitario del termine ma in quello della voglia di studiare, capire, elaborare, sfuggendo dalle semplificazioni e dai “pensieri corti”. Faccio un solo esempio, tra i mille possibili: l’abbaglio di pensare che tutto si risolvesse rincorrendo il Centro, gli elettori delusi del PdL. Il che però non vuol dire semplicisticamente che al PD serve un asse politico spostato a sinistra. Secondo me questo spostamento è necessario, ma non secondo un vecchio schema, da dibattito tardonovecentesco.
Occorre recuperare una certa radicalità, in un panorama politico dominato dalla confusione, dall’approssimazione, dal populismo. Essere radicali non significa cedere all’estremismo. Tutt’altro. Significa piuttosto fare davvero e bene ciò che si dice. Uscire dai tentennamenti e dalle ambiguità. Aprire un orizzonte nuovo del dibattito politico, delle cose da fare. Con la certezza che, per definizione, da qualsiasi crisi, sia essa politica, economica o sociale (o tutte e tre le cose), non si può mai uscire adottando i medesimi schemi di azione e di pensiero che hanno preceduto la crisi stessa. Ce lo dice l’etimologia della lingua greca. Già la Grecia. Meglio non parlarne, le larghe intese potrebbero non gradire.