23 marzo 1944
Come ogni giorno, il Polizei-Regiment “Bozen” passa cantando per le vie di Roma occupata. Quel giorno, però, all’altezza di via Rasella, i GAP (Gruppi d’Azione Patriottica), un gruppo partigiano, ha preparato un carretto pieno di esplosivo e pezzi di lamiera.
L’azione va a segno: 32 militari muoiono subito, un altro poche ore dopo, 110 sono i feriti (nei giorni seguenti, le vittime saliranno a 42).
24 marzo 1944
Nemmeno 21 ore dopo l’attacco partigiano di via Rasella, la rappresaglia è già in atto: per ogni tedesco caduto, dieci italiani devono morire. Del rastrellamento e dell’esecuzione dell’ordine si occupano il comandante della polizia tedesca a Roma, Herbert Kappler, e il suo braccio destro, il 31enne capitano delle SS Erich Priebke.
Prigionieri politici, in particolare partigiani e monarchici, membri dell’esercito italiano ed ebrei, con l’aggiunta di qualche detenuto comune e di alcuni passanti catturati in via Rasella dopo l’attentato: 335 uomini.
Furono fatti salire su dei camion e trasportati presso delle cave di pozzolana lungo la via Ardeatina, cave che furono poi fatte saltare per occultare i resti delle vittime.
25 marzo 1944
Su Il Messaggero viene data la notizia dell’attacco in via Rasella e della rappresaglia successiva. In calce, una lapidaria frase: “L’ordine è già stato eseguito”.
(I responsabili dell’eccidio si difesero sostenendo che, se gli esecutori dell’attentato si fossero consegnati, non ci sarebbe stata alcuna rappresaglia, ma fu lo stesso Kesselring, comandante in capo dell’esercito tedesco in Italia, a negare che tale comunicazione fosse stata fatta circolare nella città.)
51 anni dopo, il giornalista Sam Donaldson dell’ABC si reca in Argentina, dove intercetta un arzillo e burbero vecchietto con un marcato accento tedesco, poco disposto a concedere interviste.
E’ il capitano Priebke.
Appare sereno, per nulla pentito del suo passato e delle sue azioni, ancora fermo nei suoi ideali, afferma di aver solamente eseguito gli ordini assegnatigli dai suoi superiori, come un qualsiasi buon soldato.
L’intervista fa il giro del mondo, ma è chiaramente in Italia, a Roma, che ha l’eco maggiore: il boia delle Ardeatine viene estradato nel nostro Paese. Nel marzo 1998 viene condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello militare, ma Priebke è troppo vecchio per il carcere, per cui gli sono concessi i domiciliari.
Nel 2007 gli è concesso uscire di casa per “recarsi al lavoro” nello studio del suo avvocato, permesso poi revocato, ma dopo due anni viene autorizzato ad uscire di casa per “indispensabili esigenze di vita”.
L’11 ottobre 2013 Erich Priebke muore.
Ammettiamolo, quando è trapelata la notizia della sua morte, nessuno si è stracciato le vesti, anzi, forse per un momento ci si è disegnato sul viso un sorriso spento.
Ma è bastato solo qualche secondo a trasformare quell’amaro sorriso in una sensazione di sconfitta. Perché Erich Priebke è morto, sì, ma è morto a cent’anni, in una normalissima casa, con una normalissima badante, come muoiono migliaia di altri anziani ogni giorno. E nulla sarebbe cambiato se anche fosse stato condannato a morte nell’immediato dopoguerra, nulla sarebbe cambiato per quelle 335 vite spezzate; e allora ci si sente veramente impotenti, totalmente sopraffatti.
Erich Priebke è morto da infame come è vissuto, senza pentimento né punizione, perché nessuna punizione, non l’ergastolo, non la morte, potrebbe ripagare il dolore che le sue azioni hanno causato.
Forse sarà celebrato un funerale, forse no, forse qualche nostalgico delinquente (altra definizione non trovo, senza scadere nel turpiloquio) scenderà in strada per ricordare “il Capitano”, come lo chiamano, certamente non potrà essere seppellito in Italia, se è rimasta un minimo di decenza, ma tutto questo passa, almeno ai miei occhi, in secondo piano: Erich Priebke ha vissuto 68 anni più delle sue vittime, libero di girare per quella città in cui, un giorno di inizio primavera del 1944, ha per sempre negato a 335 uomini le loro “indispensabili esigenze di vita”.