Dentro all’impoverimento diffuso, alla paura, all’avvilimento, alla miseria economica e – prima ancora – morale, la causa della deriva si mostra nell’incapacità del potere politico di reagire in modo razionale ed efficace alla crisi attraverso gli strumenti che gli sono offerti dalla stessa democrazia che lo ha costituito e ne indica la stessa ragion d’essere.
Ma che cosa ha prodotto questa incapacità? Oggi tutti dicono: la delegittimazione della classe politica è dovuta ai suoi vizi e alla sua incapacità; due concause che si rafforzano vicendevolmente. Questa diagnosi, pur vera, rischia, se non sviluppata nell’esame del contesto culturale che ha consentito il diffondersi di quelle negatività, di confermare solo i giudizi di inutilità e di parassitismo diffusi, senza indicare terapie e vie d’uscita. Occorre cercare una risposta più strutturata.
Perché la questione morale è stata finora – nel nostro sistema – irresolubile? E perché la critica politica diffusa, che la agita, non è una critica a una politica, ma una critica alla politica? Perché non si incanala in una domanda politica specifica, ma si getta su una dimensione al di fuori della politica stessa, al di fuori della discussione, al di fuori del confronto tra idee anche molto distanti? Troppo facile chiamarla antipolitica.
È possibile, allora, fare della questione morale una questione costituzionale? È dunque ragionevole chiedersi: il nostro costituzionalismo ha contribuito a far sì che la Repubblica sia qualcosa di più di un campo in cui si bada solo che siano rispettati i termini della costituzione-trattato, fondata a sua volta su una convenzione mirante a garantire i diritti dei cittadini? E in che cosa consiste, oggi, questo “di più” che renderebbe la costituzione nel suo insieme capace di promuovere effettivamente un salto qualitativo del vivere civico?
Si può certo innanzi tutto dire che questo “di più”, questo vero e proprio surplus, dovrebbe consistere nell’effettività politico-giuridica del principio stabilito dall’articolo 54 della Costituzione:
Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge
Non sono necessarie molte parole per dimostrare come la ricerca dei mezzi capaci di dare effettività a questo principio, e per svilupparlo in tutte le sue implicazioni, non sia stata affatto perseguita. Ci troviamo dunque in una situazione apparentemente paradossale. Da un lato – e da tempo – a fronte dei vizi anche ripugnanti di una parte cospicua della classe politica, si diffonde il convincimento che le cattive azioni e gli scandali minino alla radice la capacità del sistema politico di adempiere alla propria funzione rappresentativa e di governo; dall’altro, il sapere scientifico e strumentale sembrano non riuscire a comprendere la connessione tra questione morale e questione democratica, a valorizzarla e a sistematizzarla in una chiara, strutturata e vincente teoria politica e costituzionale.
E allora si ritorna alla domanda di fondo: come dare una risposta, che non sia ancora una volta di facciata, al sentimento politico oggi più diffuso, cioè lo sdegno? Che, a bene vedere è qualcosa di differente dalla genuina indignazione. Lo sdegno è qualcosa di quasi patologico, di morboso, di decadente. Il suo diffondersi non è solo un fenomeno di costume, ma di immediato rilievo costituzionale perché è alla base della crisi della rappresentanza post-contemporanea. E se la politica in quanto tale diviene un disvalore, allora lo sdegno porta alla miopia, all’ignoranza e a una terribile condizione di brancolare nel buio. Cosa fa chi brancola nel buio? Si aggrappa alla prima cosa che trova. E può essere pericoloso.
Ma se la politica delude e fallisce, tanto più dopo essersi degradata in demagogia ed aver adunato e adulato il popolo – come è avvenuto in Italia – allora assume immediatamente i connotati di una funzione inutile e parassitaria. Il dilagare dello sdegno – ferme restando le colpe mortali della corruzione politica, che agisce da catalizzatore – porta al rifiuto anche della politica come strumento di confronto tra idee divergenti.
Il confronto allora diventa inciucio, la parola diventa politichese, la legge diventa sopruso, l’anarchico diventa il salvatore del mondo, la Corte Costituzionale diventa un luogo di parassiti e pensioni d’oro. Il Parlamento un ente inutile. Il Governo un fantoccio delle banche. E la Costituzione carta igienica.
La risposta allo sdegno è difficile, ma è ragionevole pensare che la crisi non stia tutta nelle istituzioni, negli apparati, tra “i politici”, ma che abbia radici profonde nella struttura psichica di massa, e che lo sdegno sia la parte sommersa, pesantissima, del problema. Allora se il cuore della crisi non è la meccanica delle istituzioni, ma l’assenza di quella componente essenziale delle costituzioni che è la virtù, come (re)agire a questa situazione? Come rendere la questione morale una questione costituzionale, e cioè assumendo la Costituzione come ciò che fa essere la Repubblica una Repubblica non solo a parole?
Il primo passo dovrebbe consistere nello smettere – almeno da parte di qualche forza politica e di qualche settore della cultura – di praticare l’adulazione del popolo, e cioè la demagogia. In questo orizzonte – ed è questo il secondo passo che andrebbe fatto – occorre che la passione politica abbia come elemento costitutivo essenziale un’idea di una meta da raggiungere. Non di un parametro fiscale da rispettare, ma un orizzonte da scrutare con precisione e serietà. E poi bisogna tirare fuori la nave dalle secche. E la direzione da seguire non la può decidere il vento del momento.
Abbiamo un ottimo faro, che è la Resistenza e i suoi valori. Abbiamo una bussola che qualcuno ha volutamente lasciato nel cassetto per troppi anni: la Costituzione. Abbiamo delle vele mica male, che è la coscienza democratica e civica che ha spinto – non dimentichiamolo mai – 27 milioni di persone (più degli elettori di PD, M5S e PdL messi insieme) – andare a difendere i beni comuni nel referendum del giugno 2011. Quello che manca a questa nave, forse, è un po’ di fiducia in se stessa e – al ponte di comando – un po’ di sana umiltà e onestà, che non fanno mai male.