di Federico Boem
Immaginate di dover votare per eleggere l’amministratore del vostro condominio. Al di là delle considerazioni circa il candidato ideale (le qualità e le capacità che debba possedere), appare inquestionabile che tutti i condomini abbiano il diritto di votare e dunque di esprimere la loro opinione. Solitamente in un sistema del genere, e qualora non vi sia il caso di un concorrente unico, la maggioranza impone il proprio candidato.
Appare altresì chiaro che il fatto solo che qualcuno abbia ottenuto la maggioranza non significa di per sé che egli sia la persona più idonea, sia per le proprie competenze che per la sua condotta, a ricoprire tale ruolo. Al di là di episodi di corruzione o peggio, non deve far scandalo pensare che la maggioranza possa (talvolta in piena buonafede) sbagliarsi.
Immaginate ora di porci ad un livello un po’ più complesso. Immaginate che si debba votare su qualcosa di non immediata comprensione. Immaginate che venga chiesta l’opinione di tutti su un tema come le possibili terapie che coinvolgono l’uso di cellule staminali (si veda ad esempio l’ormai arcinoto “caso Stamina” o si pensi alla mobilitazione referendaria di qualche anno fa circa le disposizioni in materia di fecondazione medicalmente assistita).
La materia è delicata, e richiede conoscenze che il cittadino medio non possiede. Tuttavia potenzialmente riguarda tutti. Quindi perché non si dovrebbe poter pensare di chiedere l’opinione dell’elettorato?
La questione è spinosa. Immaginate di andare dal medico. Ognuno si immaginerà che chi gli sta di fronte possa essere più o meno bravo ma che sicuramente non stia in quel posto in virtù di un’elezione quanto piuttosto per le sue competenze tecniche.
Ne parla già Platone quando, nella famosa metafora della nave che è in balia di una ciurma priva di techne (in greco, “il saper fare”), ravvisa il pericolo insito in ogni governo della maggioranza. La techne, potremmo dire le conoscenza e la perizia tecniche dunque, appaiono naturalmente requisito fondamentale per poter parlare di certe faccende con, come si dice in buon italiano, cognizione di causa.
Tornando all’esempio di prima, un medico è pertanto anche un esperto. Del resto, se si profila la possibilità di operarsi si ascolterà il parere di un dottore piuttosto che mettere la decisione ai voti.
Da qui si potrebbe desumere che certe situazioni che comportano certe competenze ed esperienze si sottraggano alla sfera democratica o deliberativa. E’ un’osservazione che pare ovvia e che più volte si è affacciata nella storia del pensiero.
Ad esempio Cicerone nel De Republica, riprendendo una linea di pensiero che risale fino a Platone dice “Et vero in dissensione civili, cum boni plus quam multi valent, expendendos cives non numerandos puto” e cioè “Invero, nei dissidi civili, quando i buoni valgono più dei molti, penso che i cittadini debbano essere pesati non contati”.
Come dire che in certe situazioni è la competenza che va soppesata piuttosto che il numero di chi sostiene questa o quella opinione. La conseguenza naturale di questo modo di vedere le cose è che su certe questioni la via democratica non sia quella più giusta. Anzi, in taluni casi si arriva fino a sostenere che il ricorso alla deliberazione sia addirittura sbagliato in principio.
Il punto d’arrivo appare pertanto scontato: ci sono ambiti nei quali solo gli esperti in materia possono e devono decidere.
Questa è la posizione purtroppo sostenuta da molte voci del mondo accademico e scientifico quando, di fronte alla constatazione dell’ignoranza della maggioranza, esse si trincerano dietro allo slogan “la scienza non è democratica”.
Solo ad un pensatore frettoloso certe conclusioni potrebbero sembrare ottimali. Anzitutto, chi sono gli esperti? Come vengono identificati? Gli esperti sono tutti d’accordo tra loro? Come si risolvono i dissidi tra gli esperti? Sono domande che pesano come macigni.
Si tratta di un nodo cruciale che se non analizzato profondamente può portare ad una “dittatura degli esperti”, laddove ogni settore verrebbe colonizzato solo da persone competenti (o ritenute tali) e si esaurirebbe ogni dimensione pubblica della discussione politica. Insomma il coronamento della più genuina forma di tecnocrazia.
Ma allora come risolvere il fatto inequivocabile che su certe questioni la semplice deliberazione democratica non sia “all’altezza del compito”?
Proporre una soluzione va al di là degli scopi di questo articolo. Ma certamente possiamo individuare alcuni nodi centrali che ogni azione pratica dovrebbe tenere in massima considerazione.
Una delle strade da percorrere è sicuramente quella di sensibilizzare ed informare che però, detto in questo modo, vuol dire tutto e niente. Non si tratta tanto di dire “come stanno le cose”, impresa di per sé destinata a scontrarsi con chiunque abbia una visione non ingenua del sapere. Piuttosto sarebbe necessario investire nella comunicazione scientifica convincendo gli scienziati e gli accademici che essa, così come la divulgazione, non è un’impresa culturale di serie B.
Comunicare la scienza non significa appunto “educare dall’alto” quanto piuttosto mettere al corrente quella che è la ricerca scientifica nella sua pratica, mostrando perché si fanno certe scelte piuttosto che altre. Ed una vera e genuina informazione scientifica sarebbe poi ovviamente diversa dalla mera propaganda scientista. Come dire che comunicare la scienza significa anche comunicare i dilemmi, i paradossi, gli scontri, le diverse posizioni che dentro la scienza si agitano.
Infine gli esperti dovrebbero capire che partecipare alla vita pubblica, abbandonando le torri d’avorio delle fortezze del sapere, sarebbe loro dovere anzitutto come cittadini e poi ovviamente come competenti. Solo in questo modo, si può creare un rapporto di fiducia tra il non esperto e l’esperto, tale per cui il primo accetta le ragioni del secondo.
Certo a volte tali processi non sono automatici né lineari. Nel caso delle staminali, quando la tecnologia si rese possibile, un gruppo di esperti si radunò appunto al fine di fornire linee guida al legislatore e alla popolazione (la famosa commissione Dulbecco) ma essa fu poi bellamente ignorata grazie anche all’acuirsi dello scontro politico e all’ideologizzazione del dibattito.
Siamo ancora molto lontani dal poter vedere una soluzione matura per questa questione. Eppure solo la partecipazione, concetto che merita altrettanta paziente riflessione, pare essere la via con la quale si può evitare sia la nave alla deriva spinta dalla folla incolta, che tanto preoccupava Platone, sia il totalitarismo degli esperti.
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