Il cielo è pieno di nubi. Scende qualche goccia di pioggia. Un autunno denso della solita nebbia novarese mi accompagna nel breve corso dalla stazione verso Piazza Cavour. E’ lì la mia meta. La intravedo già da lontano. Ci sono luci che vibrano nella fredda umidità della sera. E, avvicinandomi, vedo sempre più gente. Donne, uomini, anziani. Ma anche giovani, come me.
La fiaccolata organizzata dall’ANPI di Novara per commemorare l’eccidio nazifascista del 24 ottobre 1944 è un moto genuino di chi non vuole dimenticare. E la presenza di tante ragazze e tanti ragazzi è come uno squarcio di colore, partecipazione, gioia e consapevolezza. Alcuni li conosco; tanti altri no. Ma è come se non ci fosse nemmeno bisogno di conoscersi: quello che importa è che siamo tutti lì. E poi ci sono gli anziani. Sempre a schiena dritta. Li saluto come se fossi cresciuto con loro. Mi ricordano il mio nonno, militare disertore e partigiano nelle valli venete. Un graziato dalla sorte, sopravvissuto all’inverno del mondo.
Le giornate di fine ottobre 1944 furono, per la città di Novara, tra le più tragiche della sua storia. La fiaccolata di commemorazione attraversa tutto il centro storico per arrivare fino in Piazza Martiri della Libertà, intitolata ai quattro caduti assassinati dalle squadracce fasciste. Caduti colpevoli di Resistenza. Una volta lì, prende la parola una graditissima ospite, che l’ANPI novarese ha fortemente voluto: Giuliana Sgrena. Il suo volto è provato dai segni dell’esistenza; i suoi occhi hanno voglia di raccontare, di parlare, di informare. Il suo è un entusiasmo che forse nemmeno lei sa di dimostrare così tanto.
Ci parla della Costituzione, di quell’articolo 11 con cui la Carta sancisce il ripudio della guerra. Ci parla delle sue esperienze in Algeria, in Egitto, in Iraq. Non accenna mai, nemmeno per un attimo, al suo rapimento e alla sua tragica liberazione, ancora oggi avvolta nel segreto di uno Stato forse per troppe volte suddito a esigenze extranazionali.
All’intervento di Giuliana segue la testimonianza di due partigiani dell’Ossola, una vallata impregnata di Resistenza, impedisce di restare indifferenti. Le lacrime allora diventano cosa comune. Non c’è rassegnazione. Il ricordo dell’estremo sacrificio dei loro compagni partigiani è come se fosse una specie di scudo per loro due. E anche per noi che ascoltiamo. A volte mi è capitato di pensare se la mia generazione possa avere lo stesso coraggio di quei ragazzi che abbandonarono famiglia, amici, scuola, qualsiasi certezza delle poche certezze che c’erano. L’immane coraggio di quei ragazzi è qualcosa che – parlandone oggi con i miei coetanei – ci fa venire i brividi; e non sono di freddo.
La risposta alla domanda non vorremmo darla: vedere una generazione persa dietro all’ultimo modello di smartphone o alla rincorsa di qualche retwit in più, è una sensazione di dolore e sconforto davvero pesante. Il corteo ormai si è sciolto. Anche il cielo sembra più clemente. E’ più sereno. Decidiamo, insieme ad altri giovani ANPI, di fermarci in un bar del centro con Giuliana. Lei, vista da vicino, è come se gridasse il suo dolore per le tante speranze non realizzate. Un dolore per una politica che ha perso la sua bussola. Ma il dolore più grande sembra riservarlo alla paura agghiacciante che la memoria – specie tra i più giovani – si smarrisca.
Noi, nel nostro piccolo, sappiamo che non l’abbiamo smarrita. Il nostro comune impegno si traduce, prima di tutto, nella conoscenza. L’impegno dei giovani non deve essere solo nelle parole: è per questo che ora stiamo organizzando un giro nelle scuole della provincia. In tutte le scuole. Non sarà facile, lo sappiamo. Ma noi faremo il possibile, e forse anche di più. E se ci capitasse di essere sconfortati, avviliti, se ci ritrovassimo a pensare che non ne vale la pena, abbiamo i nostri partigiani che ci ricorderanno che ognuno di noi ha una missione da portare a termine.
Ce lo ricorderà il ventunenne Natale Olivieri, carabiniere-partigiano catturato nella periferia di Novara il 17 ottobre 1944: bastonato e seviziato, fu trasportato a Novara e, qualche ora più tardi, fucilato in piazza.
Ce lo ricorderà Giovanni Bellandi, partigiano garibaldino della brigata “Redi”, ferito in un combattimento in montagna, catturato, incarcerato e fucilato a Novara il 24 ottobre.
Ce lo ricorderà Ludovico Bertona ottico novarese, da subito impegnato nel sostegno alla Resistenza, presidente dell’Istituto Dominioni, l’orfanotrofio maschile di Novara.
Ce lo ricorderà Aldo Fizzotti, fra i primi giovani resistenti che frequentavano il “retrobottega” della farmacia Zorzoli, uno dei luoghi di organizzazione militare e logistica della Resistenza novarese.
Ce lo ricorderà Vittorio Aina, 23 anni, appartenente alla brigata “Matteotti”, arrestato il 20 settembre 1944 con l’accusa di aver contribuito alla formazione della squadra partigiana di Porta Mortara e di aver occultato armi nella fornace di cui era direttore.
Ce lo ricorderà Mario Campagnoli, studente ventunenne, impiegato presso un’officina meccanica di precisione, appartenente alla brigata “Matteotti”, medaglia d’argento al valor militare.
Ce lo ricorderà Emilio Lavizzari, nato a Milano, di professione sottotenente del Comando militare della polizia ferroviaria presso la Stazione di Novara, era entrato in contatto con la brigata “Rabellotti”, fu arrestato nell’autunno del ’44 con l’accusa di aver tradito l’esercito repubblicano e di aver sottratto armi per darle ai partigiani.
Ce lo ricorderà il diciassettenne Giuseppe Piccini, nato a Novara il 23 giugno 1926, allievo milite della polizia ferroviaria di Novara, colpevole di collaborare con la “Sap” di Porta Mortara, cui forniva armi e munizioni.
Dalle testimonianze che ci sono giunte, il giorno dell’esecuzione sommaria la città appariva deserta e, agli imbocchi delle strade che danno su piazza Cavour, vi erano militi che impedivano il passaggio e urlavano di chiudere le persiane delle finestre. Dietro i vetri, i Novaresi restavano però in ascolto. I prigionieri, colpevoli di aver scelto la Libertà e la Dignità, furono spinti contro il muro con calci e pugni. Uno dopo l’altro caddero sotto le raffiche di mitra dei militi fascisti. Fu vietato a chiunque di avvicinarsi ai corpi dei caduti.
I cadaveri restarono esposti alla pioggia sino al giorno seguente. Durante la notte, tuttavia, mani pietose ricomposero i corpi e deposero sui cadaveri una bandiera italiana. Quella bandiera, ancora macchiata del sangue delle vittime è conservata in quella che un tempo fu la casa di uno dei più coraggiosi uomini della storia della seconda città piemontese: la casa è quella di Piero Fornara, primario all’ospedale “Maggiore” della città e primo prefetto dopo la Liberazione. I ricordi di queste persone non sono vuoti; ci insegnano che è tempo di darsi da fare. E pur bisogna andar. Ora e sempre Resistenza!