Domanda da un milione di dollari: si può uscire da una qualsiasi crisi (specie se economica) adottando i medesimi schemi culturali e i medesimi strumenti di azione che quella crisi l’hanno provocata? Per quanto la risposta sia scontata, occorre che si avvii un’operazione economica di rilievo per porre fine ad una spirale recessiva che sembra davvero essere potenzialmente senza fine.
Quest’operazione, certo non semplice né indolore, richiede che il sistema delle relazioni industriali si lasci dietro le spalle lo scambio politico masochistico, come lo ha recentemente definito Leonello Tronti, che ha visto un sindacato debole e diviso accettare un impressionante numero di riforme strutturali sul lato del lavoro (salari, contratti, pensioni) senza chiedere né avere in cambio nuove opportunità di occupazione “buona” e sostenibile, efficaci misure di rafforzamento e ammodernamento dell’apparato produttivo e, più in generale, nuove prospettive di benessere e di sviluppo.
Di questo scambio masochistico l’elemento portante è l’impianto contrattuale varato nel luglio del 1993 e rimasto pressoché inalterato fino ad oggi. Il problema maggiore è che la mancata diffusione della contrattazione integrativa (di secondo livello) – che ancora esclude il 70% circa dei dipendenti – causa per la larga maggioranza delle imprese il mancato rispetto della cosiddetta “regola d’oro dei salari”, che richiede che i salari reali crescano nella stessa misura della produttività del lavoro.
La regola è “d’oro” perché solo il suo rispetto mantiene costanti le quote distributive del lavoro e del capitale all’interno del reddito. Sotto il profilo delle convenienze economiche, la “regola d’oro”, più nota come legge di Bowley, riveste un’importanza fondamentale per lo sviluppo perché induce concretamente sia i lavoratori sia le imprese a cooperare per il miglioramento della produttività e consente, per dati livelli occupazionali, il massimo aumento dei consumi raggiungibile senza esercitare pressioni inflazionistiche sul saggio di profitto. Al contrario, nel modello contrattuale italiano varato nel 1993 e mai smentito, la rigidità verso il basso del salario reale fondamentale definito dai contratti nazionali (primo livello) e la mancata diffusione della contrattazione integrativa (secondo livello) formano una sorta di miscela esplosiva il cui effetto depressivo è sempre più evidente.
Formuliamo due ipotesi: se cala la produttività (come accade in periodo di recessione), calano i salari reali; se calano i salari reali, i consumi si fermano; se i consumi si fermano, cala la domanda e, di conseguenza anche la produttività del lavoro e il ciclo ricomincia. Se la produttività cresce (come, in teoria, dovrebbe accadere sempre o quasi), la scarsa diffusione della contrattazione integrativa fa sì che i guadagni di produttività vadano ad aumentare la quota del capitale nel reddito, comprimendo conseguentemente la quota del lavoro.
Questo meccanismo si dimostra gravemente disincentivante sotto il profilo economico: basti pensare che il Censimento dell’industria e dei servizi 2011 (l’ultimo disponibile) ha appurato che le imprese fino a cinque addetti sono il 90,3% del totale (quattro milioni circa su un totale di 4,4 milioni) e occupano il 37,5% degli addetti. Ciò significa che se né il sistema delle relazioni industriali né la politica economica possono garantire a tutti i lavoratori l’accesso alla contrattazione decentrata, il modello contrattuale vigente vieta ai salari reali di crescere nella stessa misura della produttività del lavoro.
Quali sono stati, in soldoni, gli effetti di questo impianto contrattuale miope? Il costo cumulato di questa pratica contrattuale in termini generali (quindi sia salari sia consumi sia investimenti produttivi) operati automaticamente dal modello contrattuale italiano nel periodo dal 1993 al 2012 ammonta a ben 1069 miliardi di euro. Si tratta di una cifra indubbiamente ragguardevole (metà del debito pubblico italiano, per intenderci) che è sufficiente a spiegare non solo il freno della domanda interna di consumi e l’aumento dell’indebitamento delle famiglie, ma anche – e forse soprattutto – i ritardi di innovazione, i mancati investimenti, l’incapacità del segmento sano del nostro apparato produttivo di crescere e rafforzarsi sino a trainare l’intero Paese fuori dal tunnel della bassa – o inesistente – crescita.
Il meccanismo perverso di questo modello contrattuale, che ha garantito a troppe imprese non competitive profitti al di là dei meriti di mercato alterando in modo cieco e automatico la distribuzione funzionale del reddito, nel lungo periodo ha profondamente minato, almeno per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa dalla contrattazione decentrata e protetta dalla concorrenza interna e internazionale, l’incentivo ad impegnarsi e ad investire per migliorare la qualità dei processi produttivi e dei prodotti.
Su questo risultato ha ovviamente influito, come ormai documentano numerosi studi empirici, anche il massiccio aumento di posizioni di lavoro “flessibili” registrato dall’economia italiana tra il 1995 e il 2008. Il disincentivo ha condizionato tanto le scelte imprenditoriali, comunque garantite sul lato dei profitti, quanto quelle dei lavoratori, non premiati economicamente per l’impegno ad ottenere performance produttive migliori.
L’Italia non cresce perché il mercato interno è depresso dal modello contrattuale, le esportazioni sono frenate da prezzi troppo elevati, la spesa pubblica è bloccata dal livello enorme del debito. È tempo che governo e partner sociali negozino un nuovo modello contrattuale: un modello improntato sulla redistribuzione delle risorse, sullo sfoltimento di una serie di apparati ingigantitisi a spese dei lavoratori e dello Stato sociale; un modello equo, sostenibile e amico dei salari, dei consumi e della crescita.