Provate ad andare su Google e a cercare una definizione di scienza. Le risposte sono sterminate e vanno da quelle confezionate dai dizionari alle riflessioni degli scienziati stessi. Le definizioni sono utili ma vanno maneggiate con cautela. Ogni definizione, poiché definire è operare una distinzione, è condannata ad escludere qualcosa. Il fisico e premio Nobel Richard Feynman ricordava come la scienza non fosse certo ciò che i filosofi dicono che sia, né quello che sta scritto in proposito sui libri di testo.
C’è chi pensa, come Albert Einstein, che la scienza sia il tenativo complessivo ma articolato di ricondurre la variabilità dei fenomeni che ci circondano ad un insieme di spiegazioni logicamente uniformi o chi sostiene che essa sia più un modo di pensare caratterizzato da uno spiccato riferimento alla razionalità, che un particolare corpo di conoscenze. Appare ovvio che tali riflessioni siano solo la piccola punta di un iceberg.
Ma allora come distinguere la scienza da ciò che scienza non è? Il problema della demarcazione fu sollevato esplicitamente dal filosofo Karl Popper proprio per stabilire i criteri con cui si potesse sancire un confine appunto tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è. La questione è enorme e non sono questi il luogo e l’intento del nostro intervento. Anche qui le soluzioni (o dissoluzioni) proposte sono diverse e disparate. Popper pensava che la conoscenza scientifica, per essere tale, dovesse essere falsificabile (e dunque rivedibile), altri sostengono posizioni radicali e provocatorie ma non meno elaborate, che la scienza sia ciò che gli scienziati dicono che sia. Siamo ancora sulla punta dell’iceberg.
Anche se ne stiamo parlando in maniera informale e divulgativa tuttavia questo enorme blocco di ghiaccio quasi interamente sommerso è ciò che comunemente viene chiamato epistemologia, o filosofia della scienza. La filosofia ha la tendenza a fare grandi domande perché non ama risposte parziali. E dunque le domande dell’epistemologia sono domande da un milione di dollari: Che cos’è la scienza? Che cos’è la conoscenza scientifica? Perché la scienza “funziona”? Più in generale cosa distingue una conoscenza vera da una che non lo è? Cosa distingue il sapere dal credere, il credere di sapere dal sapere di credere? E così via.
Ragionando a braccio o in maniera ingenua su certi temi vertiginosi il rischio è alto e le domande di cui sopra corrono il pericolo di diventare scioglilingua o meri giochi di parole. Per citare ancora Feynman, la filosofia rischia di essere per la scienza ciò che l’ornitologia è per gli uccelli: qualcosa di irrilevante. Così purtroppo in parte stanno le cose. E il fatto non solo corrisponde a verità ma spiega perfettamente la diffidenza del mondo scientifico per la ricerca filosofica. Le ragioni e le responsabilità (su entrambi i fronti) di tale situazione sono molte e di nuovo non sono il punto della nostra riflessione.
Dove sta dunque il punto? Nell’intervento precedente si evidenziava come negli ultimi tempi la ricerca scientifica, specialmente in campo biomedico, stia mostrando un certo affanno. L’Economist, dicevamo, ha dedicato un lungo articolo al problema dell’attendibilità dei risultati scientifici ed il conseguente pericolo per la società e per il futuro della ricerca stesso. Una società senza ricerca del resto, è una società destinata a soccombere.
La vicenda non si ferma al giornalismo. Alcune riviste specialistiche stanno affrontando il tema “dall’interno” mostrando come alcuni di questi problemi siano di natura metodologica, soprattutto dovuti ad una insufficiente considerazione degli aspetti statistici. In merito a tale punto pensate ora a queste domande: Che cosa significa che qualcosa causa qualcos’altro? E quando si può parlare legittimamente di causa? Qual è il rapporto tra causa e correlazione? E cosa distingue una causalità probabilistica da una deterministica?
Si tratta di domande epistemologiche ma che hanno un valore anzitutto per la conoscenza scientifica stessa. Capirle ma soprattutto essere educati a porsele dovrebbe essere qualcosa che necessariamente appartiene al bagaglio formativo di ogni futuro scienziato. Purtroppo l’ordinamento universitario è progettato in maniera completamente diversa con discipline rigidamente distinte e viziato da interessi di categoria. Produce da un lato scienziati sempre meno educati al pensiero critico e dall’altro filosofi analfabeti scientificamente.
Non serve andare tanto indietro nella storia della scienza per mostrare come il pensiero scientifico più alto e di successo si sia sempre accompagnato ad una seria e rigorosa riflessione sui propri fondamenti e sul senso del proprio operare. Se il modello di produzione scientifica – ossessionato dall’ansia della pubblicazione a tutti i costi (il famoso motto publish or perish) e regolamentato da pratiche obsolete perché ideate per dirimere le diatribe tra gentiluomini ottocenteschi (la famosa peer-review) – deve cambiare, anzitutto forse bisognerà pensare a come cambiare il modello con cui si concepisce l’educazione scientifica. In altre parole che cosa e come deve conoscere uno scienziato per essere tale? E sulle ragioni di tale “modello educativo” quanto pesano le questioni economiche plasmate da un turbocapitalismo senza etica e l’isterismo tecnologico che vede un valore solo nell’applicazione pratica delle scoperte?
Si dirà che la filosofia non è mai stata una fonte di soluzioni. Non è completamente vero ma sicuramente la filosofia di per sé non è la panacea con cui risolvere la “crisi della scienza”. Ma forse essa costituisce un ingrediente fondamentale di una strategia più ampia per tornare ad una scienza pensata nel suo senso originario: conoscenza.
di Federico Boem