#Italia, repubblica semi-parlamentare

Nell’arco di una manciata di giorni – dal 27 novembre all’8 dicembre – il sistema politico italiano ha visto un mutamento netto, anche se magari non immediatamente riscontrabile. La necessaria e fin troppo rinviata decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica senatoriale ha portato la rediviva Forza Italia ad avere il proprio Capo al di fuori del Parlamento. Non che – a dire il vero – in Parlamento ci fosse andato molto spesso ultimamente, ma il fatto stesso di essere un parlamentare aveva verosimilmente dotato Berlusconi di una serie di protezioni (legali e psicologiche) rispetto all’eventualità di un arresto o di una detenzione domiciliare.

L’8 dicembre, intanto, il PD ha scelto il suo nuovo Segretario: il Segretario fiorentino, machiavellica figura. Renzi si trova anch’egli al di fuori delle Camere: per sua scelta, certo, non per costrizione. E anche il MoVimento 5 Stelle ha il proprio punto di riferimento politico al di fuori della rappresentanza parlamentare. Di fatto, circa l’85% di chi oggi si recherebbe alle urne, darebbe il proprio voto a uno di questi tre partiti (anche se il m5s e FI sono a tutti gli effetti dei movimenti, non dei partiti) il cui leader non siede in Parlamento.

Cosa che, in una Repubblica parlamentare, risulta essere quanto meno un paradosso e ci proietta in una condizione non facilmente definibile, quasi come se il parlamentarismo fosse in sè un’idea ormai dimezzata. Già, ma quale Parlamento? Quello che non è stato in grado di eleggere un Presidente della Repubblica al punto da dover andare a Canossa da Giorgio Napolitano chiedendogli di essere rieletto? Quel Parlamento che ha espresso un governo chiamato “di larghe intese”? Governo che, alla prova dei fatti, tutto era meno che di “intese”, figuriamoci se larghe: litigi sugli F35, sull’IMU, sui diritti civili, addirittura su un provvedimento lapalissiano come lo ius soli.

Un Parlamento che non è riuscito nemmeno a trovare un’intesa di fondo sulla legge elettorale. La questione può sembrare di poca importanza, ma diventa centrale nel momento in cui la Corte Costituzionale ha bollato come illegittimo un sistema elettorale – il Porcellum – senza tuttavia indicare una concreta alternativa. Qualcuno – tra i moltissimi commentatori che ci hanno illuminato la prima metà di dicembre – ha sottolineato come il Parlamento si trovi ora in una specie di limbo esistenziale: eletto con una legge illegittima ma al contempo legittimato a fare leggi.

E, qua fuori, l’emergenza lavoro è ciò di cui la politica dovrebbe occuparsi a tempo pieno. E le responsabilità sono di tutti. In questo momento abbiamo due leader che la politica vanno a farla su twitter (Grillo e Renzi) e un altro (Berlusconi) che resta a capo di tre delle principali televisioni nazionali, con un enorme potere mediatico.

La realtà è che ci si sta preparando a giocare a risiko: Berlusconi anela all’elettorato qualunquista e anti-istituzionale di Grillo; Grillo anela agli elettori di tutti. Renzi spera che l’elettorato di sinistra che, per l’assoluta inefficienza dell’ormai fu classe dirigente del PD, hanno votato Grillo a febbraio. Insomma, ognuno vuole fare campagna elettorale. In mezzo c’è un governo che stenta a dare segnali di vita. Un Parlamento sfibrato, appesantito, distratto è un conto.

Se poi chi decide che cosa fare sono, in realtà, tre persone al di fuori del Parlamento stesso, la questione si complica ulteriormente. Non solamente per la ragione basilare che ognuno dei tre userà, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, il Parlamento stesso come uno strumento di dimostrazione – nei confronti dell’opinione pubblica – del proprio operato.

La mia personale preoccupazione è che si arrivi a un punto, a spanne coincidente con le elezioni europee di maggio, in cui ognuno dei tre capi extraparlamentari userà l’inefficienza e l’incapacità degli altri due come capro espiatorio per trarne vantaggio in termini di consenso. Alla fine il rischio è che la posizione di quarto incomodo vada a finire nella colpevolizzazione dell’istituzione parlamentare in sè. Sarebbe un rischio non solo per la democrazia, ma anche per ogni possibilità di riscossa economica e morale dell’Italia. Sarebbe una miopia da pagare tra qualche anno. Non diversamente da come è già successo in questi giorni in merito alla vicenda dell’abolizione del finanziamento pubblico.