Sono in treno, sulla Milano-Torino. Di fronte a me siedono due uomini sulla settantina. A giudicare dalle occhiate e dalle parole che si scambiano nel commentare le notizie dei rispettivi giornali aperti – “L’Unità” e “Il Tempo” – si conoscono da molti anni. Ad un certo punto inizia tra loro due una vivace discussione circa le cause del declino (specie politico) dell’Italia.
Il primo sostiene che la causa sia la nascita e la crescita – alimentata anche da un sempre più forte impoverimento culturale generale – di Berlusconi e del berlusconismo, inteso in tutte le sue varie accezioni, dal craxismo al grillismo: in breve, la sua tesi è che il problema risieda in particolare nella mania tutta italiana di affidarsi alla soluzione più facile, all’uomo forte del momento, senza approfondire le questioni politiche nella loro natura di complessità e – talvolta – di una certa dose di impopolarità.
Il secondo, spazientito, chiude con stizza “Il Tempo” e inizia a controbattere: a suo modo di vedere il declino italiano e’ dovuto alla presenza della “anomalia comunista” coincidente con una sovrarappresentazione del PCI rispetto a quanto accadeva, negli stessi anni, negli altri Paesi europei. E, all’interno di questo, imputa alla specifica figura di Enrico Berlinguer, l’esistenza di un sostegno popolare al PCI (che oggi – continua – ha solo cambiato nome, ma è uguale a dire PD) composto da settori sociali (ceti medi impiegatizi, insegnanti, pensionati) che di norma dovrebbero invece essere legati al centrodestra.
“É tutta colpa di Berlinguer”, conclude tra le animate proteste del suo compagno di viaggio. Scendono a Magenta, lasciandomi da solo a pensare.
Forse ha davvero ragione lui: forse è davvero tutta colpa di Berlinguer.
Se non ci fosse stato Berlinguer, non avremmo conosciuto il senso della questione morale. Certo, una questione morale esisterebbe comunque – come canone etico – ma non sarebbe una questione politica, con una portata così ampia come invece Berlinguer ci ha dimostrato.
Se non ci fosse stato Berlinguer, non avremmo avuto – come cittadini e come giovani – quell’esempio di “coraggio della concretezza” che lo portò, dal 1973, a porre all’ordine del giorno la necessità di un cambiamento netto nel Paese attraverso un programma di riforme che è generalmente noto come “compromesso storico”, tante volte frainteso nel suo reale significato.
Se non ci fosse stato Berlinguer, forse sarebbe difficile capire quanto sia necessario per la sinistra (ri)trovare una dimensione di popolarismo.
Se non ci fosse stato Berlinguer, avremmo potuto facilmente cedere al falso e pericoloso mito che lottare non serve a nulla: lottare, per un’idea, un ideale, una causa di giustizia invece serve sempre. E se, a distanza di anni, i risultati sembrano svaniti, dovremmo ricordarci che l’esempio – e in particolare l’esempio ai più giovani – è uno dei più grandi e gratificanti risultati a cui un politico possa aspirare.
Se non ci fosse stato Berlinguer, non potremmo provare quella strana sensazione – difficile da descrivere razionalmente – di nostalgia verso una persona che non solo non hai mai conosciuto, ma che addirittura era già morta da anni quando siamo venuti al mondo.
Se non ci fosse stato Berlinguer, oggi potremmo essere più tranquilli, con meno problemi, con meno dubbi, con meno domande, con meno passione, con meno bellezza. La bellezza di poter credere nella politica, nonostante tutto.
I ladri, i corrotti, i parassiti c’erano prima, durante e dopo Berlinguer. Oggi la situazione è degenerata, certo, ma nulla ci vieta di continuare – instancabilmente, nel nostro piccolo – a lavorare tutti casa per casa, strada per strada, azienda per azienda. Chi dice che non c’è speranza, che non c’è futuro, che nulla può mai migliorare, è schiavo di un vittimismo passivo che nulla ha a che vedere con la politica; chi lo dice o lo dice per negligenza culturale oppure per convenienza elettorale.
Ecco, allora è questo che credo Berlinguer abbia insegnato a più di una generazione: non stancarsi mai, nemmeno per un momento, di controbattere, con quotidiane azioni concrete, alla discultura dell’amoralismo e dell’imprenditoria della paura.
E a quel signore che ritiene che sia tutta colpa di Berlinguer, vorrei garbatamente rispondere che se lottare, rischiare giorno dopo giorno e infine morire per un ideale di giustizia, dignità e libertà può essere definito come una “colpa”, allora sì: è davvero tutta colpa di Berlinguer.