Franz Kafka, nella sua ampia produzione letteraria, ha scritto solo tre romanzi, tutti incompiuti. Di questi “Il Processo” non appare in realtà come un’opera incompleta, dato che a differenza de “Il Castello” e “America” ha un finale vero e proprio, eppure più volte Kafka manifestò il desiderio di continuare a riempirlo o almeno modificarlo nella parte centrale, quasi a portare all’infinito l’incubo del protagonista, Josef K.: arrestato senza che gliene sia rivelato il motivo, si ritrova a dover sopravvivere in un universo onirico e contraddittorio, quello del tribunale e dell’apparato burocratico che vi gravita intorno, ma viene infine giustiziato, senza peraltro essere mai riuscito a conoscere il capo d’imputazione.
Esistono almeno due piani su cui si può leggere l’opera di Kafka e “Il Processo” in particolare. Ce n’è uno psicologico, per cui le vicende di Josef K. sono la rappresentazione dell’individualità oppressa da meccanismi sociali che sfuggono al nostro controllo, e c’è un piano che possiamo definire più fisico.
Molti vedono in buona parte dell’opera dell’autore di Praga una vera e propria profezia dell’Olocausto, ma la posizione temporale di Franz Kafka è già colma di tutto quello che sarà materia prima dell’orrore nazista e non solo: nei primi anni del XX secolo vennero messi in circolazione I Protocolli dei Savi di Sion – si arrivò a vedere una cospirazione ebraica anche nella Rivoluzione d’Ottobre – e i pogrom erano in atto già dal 1881. Inoltre con la fine della Prima Guerra Mondiale l’Europa assistette allo smembramento dell’Impero Austro-Ungarico e alla costituzione della Repubblica Cecoslovacca, immediatamente afflitta dalla difficile convivenza di gruppi etnici differenti sotto un unico governo. Parallelamente in quello che era ormai un ex dominio Ottomano si formava, in puro stile colonialista, il Mandato britannico della Palestina, sul territorio che avrebbe poi costituito lo Stato d’Israele.
Per quanto Franz Kafka mostri in ogni sua riga un malessere intimo e profondo, così forte da portarlo ad avere un rapporto difficile col suo stesso corpo e la sua sessualità (pare soffrisse di anoressia nervosa), non si può slegare la sua esistenza e la sua scrittura dalle vicende praghesi di inizio ‘900. In realtà non è così difficile essere profeti del razzismo, dei sentimenti nazionalisti e delle loro conseguenze, basta frequentare per un po’ gli esseri umani. Ma seguendo questo percorso di lettura mi sembra che si perda il vero filo conduttore del romanzo.
La macchina burocratica è una costante, con piccole variazioni, del totalitarismo, compreso quello stalinista. Sartre (Critica della Ragione Dialettica) aveva individuato proprio nell’istituzionalizzazione dei movimenti rivoluzionari il fallimento di quello che oggi chiamiamo socialismo reale. Otto Adolf Eichmann non era che uno dei tanti burocrati delle tante dittature, Hannah Arendt lo descrisse così:
l’incarnazione dell’assoluta banalità del male
Kafka da parte sua sperimentava le esasperanti pedanterie delle Istituzioni (statali, etniche, religiose, sociali), affrontandole gravato dal carico di una personalità complessa e poco propensa ai rapporti interpersonali. Terry Gilliam nel 1985 girò uno dei film più visionari della storia del cinema, Brazil: anche qui il protagonista è vittima di un mondo che non può conoscere né tanto meno controllare, dominato da una burocrazia ossessiva e spersonalizzante. La pellicola è l’ennesima prova (se mai ce ne fosse bisogno) che l’immaginario kafkiano è parte integrante del nostro modo, più o meno conscio, di rapportarci alla complessità storica del nostro percorso di esseri umani.
Un uomo condannato a guardare il mondo con una lucidità cosi accecante che lo trovò intollerabile e ne morì.
(Milena Jesenská)
In Italia “Il Processo” è edito da Einaudi, nella preziosa traduzione di Primo Levi, da Garzanti, da Adelphi e da Feltrinelli.