È giusto che ci sia una sosta nelle preoccupazioni, nella tristezza, nell’insoddisfazione, che ci sia un po’ di sosta dopo sei giorni di lavoro. Chi ha lavorato per sei giorni ha il diritto la domenica di andare con la famiglia a gioire sulla spiaggia, al mare o altrove. E che gli si deve dire “come mai tu gioisci quando ti attende il lunedì?” Io gli rispondo che intanto penso alla domenica e il lunedì verrà a suo tempo.
Rispondeva così alle critiche Sandro Pertini di ritorno dal mondiale di Spagna del 1982. E aveva pienamente ragione il Presidente della Repubblica a rivendicare il diritto al divertimento e allo svago che non è certo venuto meno con la crisi economica che stiamo affrontando, anzi è un errore pensare il contrario: si lavora per vivere, non si vive per lavorare!
Eppure a guardare oggi le strade e le piazze brasiliane quel 1982 sembra un tempo lontano e ormai finito.
Negli ultimi 20 anni, infatti, chiunque è venuto a conoscenza del fatto che i grandi eventi sportivi vengono finanziati prevalentemente con i soldi pubblici (con l’eccezione delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, probabilmente le ultime in cui si generarono dei profitti) con un ritorno economico disastroso. C’è chi sostiene perfino che i Giochi di Atene del 2004 abbiano dato un contributo non trascurabile al drammatico impoverimento della Grecia. E anche nella City non sono mancati madornali errori di calcolo: il numero dei turisti, ad esempio, è addirittura diminuito durante il periodo dei Giochi. Senza contare che i famosi posti di lavoro oltre ad essere chiaramente temporanei erano, almeno a Londra, coperti da disoccupati solo per il 10%. Inoltre il prof. Gavin Poynter fa notare come le strutture che generalmente si costruiscono nel corso di anni (hotel, mezzi pubblici, ristoranti), seguendo gli andamenti dei flussi turistici a lungo termine, nel caso dei Giochi “esplodono” e basta, generando una considerevole bolla di disoccupazione già l’anno successivo.
L’altro aspetto legato storicamente più alle Olimpiadi, ma che sta prendendo piede anche ai mondiali, è il boicottaggio. Anche tralasciando la scarsa presenza di risultati reali e tenendo conto che ormai nel mondo il più pulito c’ha la rogna (per capirci, non è che la pena di morte negli Stati Uniti sia più accettabile delle leggi omofobe di Putin) è chiaro che non possiamo evitare, sia noi in quanto”consumatori” che gli atleti in quanto “simbolo”, di fare i conti con la nostra coscienza.
Non voglio fare facile benaltrismo, è evidente che quello che si spende per uno stadio si potrebbe spendere per dieci scuole, anche se ritengo che, in un mondo forse migliore di questo, uno stadio o una piscina o un teatro sono utili per la collettività tanto quanto una scuola. Quello di cui sono convinta guardando alla realtà però, e lo dico da amante dello sport, è che oggi i tempi siano maturi almeno per sospendere sia i Giochi Olimpici che i mondiali. Non credo, e spero che non sia necessario arrivare a un conflitto mondiale per farlo.
Sarebbe troppo infatti chiedere che si ripensi in modo totale allo sport come passione e non come accumulo di capitali: qualche anno di pausa, comunque, sarebbe già un segnale importante. In Brasile è chiaro che non parteciperemo a un momento di svago così come lo concepiva Pertini: il lunedì a cui torneremo dopo una lunga domenica di gol ed emozioni sarà molto diverso da quello a cui si tornava nel 1982, perché ci chiederà conto delle nostre responsabilità a livello globale e nel 2014 non è più ammissibile chiamarsi fuori.