Aboliamo la legalità. Aboliamola come parola, come concetto, depennatela dal vocabolario. Vivremo più felici e non dovremo più sorbirci i retori che ce la rifilano in tutte le salse e in tutti i sermoni, ad ogni occasione pubblica. Perché oramai legalità è diventata un ombrello sotto al quale ci hanno messo di tutto e come ogni parola onnicomprensiva non significa più nulla. Hanno poco da meravigliarsi della nuova Tangentopoli gli alfieri della parola, perché il sistema delle bustarelle e dei favori è oramai non solo istituzionalizzato, ma è da una ventina d’anni reso anche legale (si vedano le depenalizzazioni degli abusi d’ufficio patrimoniali e non ad opera del centrosinistra 1996-2001).
Ma del resto, di cosa stiamo parlando? E’ perfettamente legale in Italia lasciare in mezzo alla strada gli esodati, quindi prendersela con i più deboli, salvo invocare la Costituzione quando si giudicano indecenti le pensioni da 90mila euro al mese di certi concittadini ex-manager di Stato. La legalità è come una fisarmonica: si allarga per i potenti, si restringe per i fessi. E poi ci si domanda perché siamo comunemente dipinti all’estero come il Paese dei furbi.
La verità è che quello che manca a questo Paese per uscire dal degrado politico, economico e sociale, nonché morale, in cui ci hanno gettato anni di “legalità” è il ritorno sulla bocca di tutti della parola responsabilità: in inglese la traducono accountability, ovvero il rendere conto delle proprie azioni. Spesso, per non assumersi le proprie responsabilità si invoca la legge: non posso, c’è la legge che me lo impedisce. Come per le leggi razziali: vorrei aiutarti, caro perseguitato, ma se ti aiuto nei campi di concentramento ci vado anch’io. E per fortuna che all’epoca un sacco di gente agiva nell’illegalità, altrimenti Mussolini sarebbe morto nel suo letto come Franco.
La verità è che la legalità, parola vuota e screditata, nonché totalmente arbitraria, ha finito con il nascondere un tema molto più rilevante e centrale: quello della moralità in politica. E non si tratta di cadere nel moralismo, come obietta qualche imbecille che in nome di un mai letto Machiavelli invoca il primato della politica sulla morale. Si tratta di riscattare i cittadini da quel pozzo di qualunquismo, apatia e indifferenza in cui sono precipitati a seguito di anni di delusioni e di scandali.
Solo una nuova moralità politica può farci uscire dal pantano, dandoci la forza di reagire alle varie degenerazioni della vita pubblica, che hanno aperto e aprono autostrade a poteri occulti ed eversivi, tra i quali spiccano le organizzazioni mafiose. Ma nessuno è interessato alla moralità, che è cosa difficile da ottenere e da definire: meglio promulgare un’indefinita legalità di cui tutti possono riempirsi allegramente la bocca.
Quando Enrico Berlinguer si batté come un leone per la Questione Morale venne appunto deriso e sbeffeggiato da quelli che lo vedevano come un bigotto moralista alla ricerca del dominio della morale. Ma la moralità politica e la morale sono due cose differenti, come insegnava lo stesso Machiavelli. La novità, e grande, della lotta di Berlinguer stava nel fatto che dietro quello spirito di rivolta morale non c’era solo la disperata e solitaria invocazione di singole personalità o di gruppi ristretti. Enrico Berlinguer stava facendo diventare quella forma di rivolta il patrimonio di milioni di cittadini, capendo che questa era davvero l’arma più temuta dagli avversari della cosa pubblica. E, così facendo, non lavorava settariamente per sé o per il suo partito, come fanno quelli che invocano la legalità, ma per la Repubblica italiana.
Abbandoniamo quindi la legalità al suo destino e riappropriamoci di quello spirito di rivolta morale: staremo meglio noi, staranno peggio quelli che dall’arbitrarietà di ciò che è legale hanno costruito intere fortune. E state certi che qualcosa cambierà.