Apro gli occhi. È notte. Ho fatto un incubo. Ho sognato una tempesta. C’erano tuoni fortissimi. Ma non pioveva. E non c’erano nuvole. È un incubo che faccio ogni notte. Ho paura di addormentarmi.
Apro gli occhi. Questa volta dalle finestre vedo il sole siriano brillare. Mia madre mi chiama dalla cucina: ‘Aidha, svegliati, devi andare a scuola!’. Ma non voglio andarci. Ogni volta ho paura di ritrovarmi in mezzo alla tempesta che tormenta le mie notti. “Sono al terzo anno di scuola secondaria, ma dovrei fare gli esami in una città che è lontano dal mio villaggio. C’è solo una strada per arrivare lì ed è molto pericolosa. Non ho paura di fare gli esami, ma ho paura di morire lungo strada per arrivarci”.
Mia madre è brava. Oggi non mi ha fatto andare a scuola. Ne approfitto per uscire a giocare con i miei amici. Sono sempre tutti molto tristi però. E hanno paura di tutto. Non lo so perché. Anche loro fanno spesso brutti sogni. E sempre pieni di rumori e luci accecanti. Siamo in tanti per strada. Molti bambini, come me, non sono andati a scuola. Chiedo a un mio amico perché lui non ci è andato. Mi dice che è già un mese che non ci va: “un giorno degli uomini armati sono entrati nella scuola e hanno iniziato a sparare. Il giorno dopo mia madre ha detto che non potevo andare più a scuola”.
Torno a casa. Mamma mi dice che presto partiremo, per una vacanza. E infatti dopo un paio di giorni partiamo. Non so dove stiamo andando. Ma non mi sembra una vacanza. Con noi c’è un sacco di gente, ma nessuno sembra felice. In effetti, non lo sono nemmeno io. Mamma mi dice che stiamo andando in Iraq. E che forse potrò tornare a scuola. Ma ci fermano per strada. Ho paura. Vedo gente scappare. Sento rumori di spari. Ancora il sogno. No, è tutto vero. Vedo intere famiglie cadere a terra. Immobili. Mamma mi dice di chiudere gli occhi. Non ci riesco. Vedo “un gruppo di strani diavoli con la barba lunga, per nulla rassomiglianti a militari”. Scappiamo.
Arriviamo in Iraq. E finalmente torno a scuola. Ma non è come a casa. “A volte i bambini iracheni si arrabbiano molto con noi bambini siriani. Ci dicono che siamo i cattivi. Io non sono venuta qui per dare problemi, ma perché la situazione in Siria è terribile. Non avevamo né elettricità né acqua e voglio solo vivere la mia vita e andare a scuola. Io sono una bambina e non ho niente a che fare con la guerra, non è colpa mia. Voglio solo continuare a studiare.”
Mi manca la Siria. Mi manca casa. Mi chiamo Aidha, che nella mia lingua significa ‘colei che parte ma ritorna’. Mamma ha detto che siamo profughi. Non so bene cosa vuol dire. So solo che non voglio addormentarmi. E che non so se ritornerò mai.
Questa è una storia. Romanzata, certo. Ma le parti virgolettate in corsivo sono testimonianze vere, parole dette da bambini siriani. Bambini a cui stanno togliendo il futuro. Più del 18% delle scuole sono state distrutte o utilizzate come rifugi militari. Il tasso di alfabetizzazione è passato dal 90% prima della guerra al 6% in alcune zone del Paese. E molti bambini sono costretti a lavorare. Non c’è crudeltà maggiore che togliere la felicità dell’infanzia dal volto di un bambino. Quasi metà dei bambini siriani, infatti, ha dichiarato di sentirsi triste. Un bambino su tre si sente impotente. Il 39 % fa brutti sogni e altrettanti si spaventano facilmente. Sono le conseguenze della guerra. I bambini sono sempre le vittime innocenti. Da qualunque parte si guardi. Perché ai bambini non interessano i soldi, il petrolio, gli sciiti, i sunniti, gli USA, l’Arabia Saudita, i giochetti diplomatici vigliacchi. No, ai bambini non interessa tutto questo. Ai bambini siriani interessa chiudere gli occhi e riuscire a sognare, per una volta, una bella giornata di sole.
Se, durante la “primavera araba”, noi occidentali ci fossimo fatti i cazzi nostri, oggi non ci sarebbe la guerra civile in Siria, in Egitto, in Libia e l’ Isis non sarebbe padrona dell’Iraq.
A volte farsi i cazzi propri è la cosa migliore.