Il passato ha, lo sappiamo, molto fascino: ha fascino per gli estremisti di destra che spesso ricordano pittorescamente il loro nefando passato così come per gli estremisti di sinistra, che, meno spesso rispetto ai primi, hanno nostalgia del recente passato socialista.
Davvero pochi anni sono passati dalla caduta del muro di Berlino, che segna lo spartiacque fra il secolo breve e il nuovo millennio e, soprattutto, la caduta del Blocco Orientale guidato dall’Unione Sovietica. A pensarci, sono passati soltanto venticinque anni, e il muro cadeva un anno prima che i miei genitori si mettessero insieme e soltanto sette anni dopo sarei nato io: insomma, al di là della cronistoria personale che giustamente potrà non interessarvi, quei tempi che a molti sembrano davvero passati sono forse più vicini e in certi casi presenti che mai.
Quei chilometri di cemento armato e morte che separavano l’Est dall’Ovest, l’Ovest dall’Est e che prendevano ufficialmente il nome di barriera di protezione antifascista erano soltanto il simbolo visibile al mondo di ciò che è stato il regime socialista della Repubblica Democratica Tedesca, mettendone massimamente in luce gli aspetti negativi: repressione, divisione dal resto del mondo (come imposto da Mosca), controllo, Stasi.
Eppure per tutto il periodo postbellico la DDR ha rappresentato la punta di diamante del mondo del socialismo reale: tecnologicamente avanzata, con un forte sentimento comune di solidarietà, eccellente nello sport, con uno stato sociale sviluppatissimo che garantiva a tutti i cittadini l’accesso gratuito alla sanità e all’istruzione, sussidi familiari e lavorativi…
La DDR era, in definitiva, lo stato socialista dove la gente, seppur sotto gli occhi e i manganelli della Stasi, viveva meglio: viveva così bene che, a differenza di altri Paesi che vissero nel socialismo reale, ancora oggi, a distanza di 25 anni, molta della popolazione dell’Est vive con Ostalgie – ossia con nostalgia dell’est – il presente riunito e la vittoria del capitalismo sul socialismo. Tutto sarebbe andato liscio come l’olio per l’Est riunito alla Germania federale e occidentale, nelle previsioni di Helmut Kohl, ma, come ci si può aspettare in ogni fase di passaggio e di rivoluzione le cose spesso non vanno come si spera: quella che fu la Repubblica Democratica conobbe la Coca Cola e la disoccupazione, il McDonald e lo smantellamento dello stato sociale, le privatizzazioni massicce delle proprietà statali e i licenziamenti, i centri commerciali e l’impennata dei prezzi.
L’Ostalgie, che ci viene descritta con accuratezza di dettagli fra la tragicità e la commedia in ‘Goodbye, Lenin!’, non è un sentimento banale di reminiscenza del vecchio, ma forse il momento più puro in cui una generazione nata e cresciuta nei quarant’anni della guida del Partito Socialista Unificato di Germania guarda al futuro con le lenti del passato: le picconate che distrussero il governo socialista di Honecker – pensano molti tedeschi dell’Est – ha distrutto anche il nostro benessere, acuito in larga parte tensioni sociali che prima erano praticamente inesistenti.
Le libertà d’espressione e di sciopero ricevute nella Germania unita vengono viste come una presa in giro nel momento in cui esse vengono ignorate dal governo delle Grosse Koalition o dai cristiano-democratici di Merkel.
Le promesse sono state, per la stragrande maggioranza dei cittadini dell’Est, illusioni blande partorite sempre da quel capitalismo dal volto umano che mai è esistito, men che mai se gettiamo lo sguardo in una nazione (in due nazioni, anzi), la Germania, che all’epoca, insieme a Cuba, rappresenta la frontiera di scontro fisico fra due visioni antitetiche del mondo.
Soltanto un uomo, a mio personale giudizio, ha saputo incarnare il sentimento vero di una Germania unita e pulita, che guardasse non tanto a sconfiggere quel socialismo barbaro che ben si racchiude nel murales “Dio mio, salvami da questo amore mortale”, dove Breznev e Honecker si baciano, ma quanto a abbattere muri non tanto fisici quanto mentali: parlo di Willi Brandt.
Brandt ha incarnato in quel particolare momento storico il ruolo saggio di intermediario fra due mondi che erano vicini allo scontro, fra la vecchia Germania nazista – condannata definitivamente quando Brandt si inginocchia, piccolo e solo, nel ghetto di Varsavia (e qui va ricordato che larga parte dell’opinione pubblica tedesca in modo trasversale considerò il gesto eccessivo) – e queste due Germanie che, nella sua ottica, potevano convivere insieme. Brandt, che archivia il ventennio democristiano nell’Ovest, finisce la sua storia dimettendosi da cancelliere per l’implicazione di un suo stretto collaboratore nella Stasi, quasi a ripercussione di una intera attività politica passata nel cercare di far convivere lo stato liberale e quello socialista senza dimenticare che il suo orizzonte era proprio il Socialismo, quello a cui io do la S maiuscola. Un socialismo che non è quello sovietico, che anzi per stessa ammissione dei suoi dirigenti, ha dimenticato i principi veri della Rivoluzione e assoggettato i suoi cittadini al capitalismo di stato, privandoli di ogni libertà personale dando loro in cambio sicurezza economica, ma un Socialismo – dice Brandt – che sia impegno permanente, che sia la combinazione di libertà, giustizia e solidarietà.
Ecco, io in questi giorni non voglio ricordare n-ostalgicamente i due uomini che si baciano nel murales della East Side Gallery, questi due compagni che tanto hanno sbagliato, ma voglio ricordare persone come Brandt.