Tra tutti i grandi maestri del poliziesco o del giallo, Simenon è sicuramente quello che ha più caratterizzato il genere con il grande personaggio dell’ispettore Maigret. In questo articolo vorrei proporvi alcuni dei suoi romanzi più riusciti, che potrebbero anche rivelarsi come un’ottima lettura durante le vacanze natalizie.
Nel racconto Maigret e l’uomo solitario (1971), il carcere si configura come l’istituzione di un sistema incapace di perseguire il vero colpevole. Il protagonista viene condannato alla reclusione nel penitenziario di Fresnes perché si è fatto giustizia da sé, uccidendo colui che, vent’anni prima, aveva barbaramente assassinato la donna amata. Mahossier ha supplito, dunque, alle mancanze del sistema giudiziario e della polizia che si è sempre disinteressata al caso e che non ha mai rintracciato né indagato il colpevole. Quando il commissario Maigret chiede a Mahossier perché non ha denunciato il vero colpevole alla polizia, egli risponde in modo laconico: “Perché Vivien avrebbe invocato il delitto passionale e se la sarebbe cavata con una pena ridotta. E oggi sarebbe fuori da un pezzo”. Inoltre, in questo racconto, come in Il cane giallo (1931), Maigret è colui che ordina e dispone la carcerazione preventiva dei sospettati, senza avere in mano delle prove schiaccianti e dopo aver fatto delle pressioni psicologiche sui superiori, pratica non sempre conforme alla legge. In questo senso, egli non si discosta molto dai metodi utilizzati dai mouchards, vale a dire dai primi investigatori della letteratura poliziesca.
In La testa di un uomo (1931), ad esempio, Maigret organizza l’evasione di Joseph Heurtin, un detenuto condannato a morte per l’uccisione di due donne, e si serve di lui per arrivare al vero colpevole. Come Vidocq e Vautrin, anche l’investigatore creato da Simenon si avvale spesso dell’aiuto di coloro che hanno violato la legge, incarnando un apparato di polizia che ricorre all’illegalismo e ad infiltrati ex carcerati per arrivare ai propri scopi. D’altro canto Maigret rappresenta, in qualità di funzionario, quell’apparato e quel circuito polizia-prigione-delinquenza su cui si basa l’ordine borghese. Anzi, potremmo dire che Maigret è un personaggio profondamente e completamente borghese e, dunque, egli agisce sempre con lo scopo di mantenere e proteggere il sistema di cui è diretta emanazione.
Questa connotazione sociale differenzia il commissario di Simenon dai grandi investigatori della letteratura poliziesca che si collocano al di fuori o al di là della disciplina e della vita meramente borghese. In altre parole, Maigret è più simile ai mouchards piccolo-borghesi che ai grandi “artisti” della detection quali Sherlock Holmes o Arsène Lupin, il quale, come abbiamo evidenziato in un altro articolo, lotta da aristocratico proprio contro le ingiustizie e le contraddizioni della borghesia.
Agli occhi di Maigret, che considera gli ideali della piccola borghesia come “i valori umani tout court, i valori umani in assoluto”, la prigione non può che apparire essa stessa come un’istituzione borghese e ordinaria da preservare e da utilizzare per difendere il sistema di principi in cui egli stesso crede ciecamente.
Tuttavia, già nella saga di Maigret, il carcere assume anche un significato psicologico dovuto al fatto che l’autore abbandona definitivamente le regole del roman à enigme, trasposizione francese della detective story inglese, per inaugurare il nuovo genere del roman d’atmosphère (poliziesco psicologico). Maigret, infatti, incarna un nuovo tipo di detective, assai diverso dal modello rappresentato dal Lecoq di Gaboriau il quale segue un metodo deduttivo rigoroso basato sull’osservazione degli indizi, la raccolta delle prove e la formulazione delle ipotesi. Maigret è un investigatore che punta, piuttosto, sulla penetrazione psicologica dei personaggi, sull’analisi del loro carattere e delle loro fobie, trascurando spesso le impronte e gli indizi fondamentali. Ci si può già accorgere della netta differenza tra i due metodi in Maigret e il cane giallo (1931), dal momento che il giovane assistente Leroy appare ancora legato al modello deduttivo dei grandi detective, servendosi rigorosamente di un taccuino per segnare ogni minimo indizio, mentre Maigret sembra anticipare l’investigatore che scruta la psicologia degli indagati, che non deduce mai e che soprattutto non trae conclusioni premature.
L’attenzione che Maigret riserva alla psicologia dei personaggi e agli ambienti sociali, più che alle tracce o agli indizi dei casi criminali, rivela, anche per quello che riguarda la rappresentazione dell’immaginario carcerario, un’evoluzione del pensiero di Simenon, o, più precisamente, una cesura tra un prima e un dopo. Nei primi romanzi polizieschi degli anni Trenta, legati ancora al modello rigoroso e deduttivo della detective story inglese, sebbene emerga già una certa fragilità di Maigret e una certa attenzione per l’ambiente, Simenon è interessato principalmente alla declinazione della prigione quale luogo rassicurante della legge dove il colpevole viene consegnato alla giustizia o dove l’innocente è ingiustamente perseguitato (si pensi, ad esempio, a Il cane giallo, La testa di un uomo, Il carrettiere della Providenza). Nei racconti successivi, più legati a partire dagli anni Quaranta al genere del roman d’atmosphère, lo scrittore si concentra, invece, anche sulla connotazione del carcere quale gabbia psicologica e spazio di una sorveglianza “proustiana”, come traspare, ad esempio, da Maigret e la vecchia signora (1950) e da Maigret ha paura (1953).
In conclusione, dietro alla saga del commissario Maigret e alle opere di Simenon, vi sta ancora una volta una sottile e forte critica verso un determinato ordine economico e sociale come quello borghese, incarnato in questo caso dalla figura dell’ispettore/funzionario.