Questa è la storia di un inverno. Un inverno freddo per le strade della capitale. Temperature sotto i dieci gradi durante la giornata e vicine allo zero nella notte. Insomma, uno di quegli inverni in cui ci si rintana sotto le coperte . Uno di quelli da passare con le mani accanto al termosifone. Eppure, per chi se la sente di uscire al freddo, si prospetta un viaggio nelle sofferenze di chi un termosifone non ce l’ha. Perché parlare di coperte, di termosifoni, vuol dire parlare di casa. E parlare di casa, qualche volta, è già tanto.
Roma brulica di senzatetto, anche con la rigidità del meteo che non fa sconti. Spesso non si notano, al riparo di qualche ponte o nei pochi luoghi all’aperto dove si può godere di un po’ di conforto. Qualcuno trova al riparo nei luoghi adibiti ad ospitare chi non ha un rifugio per la notte. Ma come sempre, i posti letto sono troppo pochi, e troppi sono quelli che restano fuori. Anche se spesso non si notano, perché bisogna prima di tutto volerli vedere.
Questa è la storia di Salvatore, di Fabian, ed è la storia di tanti altri. Salvatore è napoletano, ed ha sempre vissuto nella sua città. Ha una famiglia, una moglie e una figlia. A Napoli hanno sempre vissuto a casa dei genitori di lei, e in quel luogo lo attendono da più di una settimana. Ma lui è a Roma, partito per cercare di racimolare qualche soldo. Dice di arrangiarsi, fa il parcheggiatore abusivo quando può. Ma i soldi per pagarsi un tetto, non ce li ha. E così eccolo qua, adagiato su un muro nei pressi della stazione Termini. E intorno a lui ce ne sono tanti altri, più schivi, raggomitolati in un angolo, sopra un cartone. Senza un tetto, senza un riparo.
Fabian invece una famiglia non ce l’ha. O meglio, ha dei genitori, da qualche parte in Polonia. Vive in Italia da tanti anni ormai. Ha la barba lunga e gli occhi chiari. Quegli occhi che sembra possano scrutarti dentro l’anima. Sembra indifferente al freddo, sempre assorto nei suoi pensieri. Ha un cartone di vino, che condivide con Salvatore e con qualche altro senzatetto seduto nei paraggi.
Salvatore dice di essere fortunato. Perché lui è partito da casa con dei buoni vestiti, e ha una coperta. E soprattutto perché ha una casa in cui tornare. Fabian invece si è rassegnato ad essere stato abbandonato dalla fortuna. “Posso solo sopravvivere” dice. Sempre con lo stesso sguardo, come se in fondo non gli importasse.
Sono due persone molto interessanti, anche se conosciute in circostanze particolari. Entrambi raccontano che la sera prima, ancora più gelida, dei ragazzi della zona hanno portato loro qualcosa di caldo. Una signora ha donato loro perfino una coperta. E stando seduti accanto a loro, sentendo le loro storie, vedendoli rannicchiati nei loro angoli, non si può che fare lo stesso.
Salvatore accetta di cenare con me al supermercato della stazione, ma l’ora è tarda e lo troviamo ormai chiuso. Vediamo però un bar aperto. Fabian dice di non avere fame, e rifiuta anche qualcosa di caldo da bere. Però accetta di accompagnarci. Il bar è quasi deserto e molto piccolo. Ci sediamo e ordiniamo due panini. Il barista ci guarda male, deve essere un trio davvero poco convenzionale. Forse non ci vorrebbe nemmeno ospitare, ma non dice niente. Noi mangiamo, rimaniamo un po’ seduti, e poi ce ne andiamo. Gli propongo anche di portare qualcosa agli altri, ma dicono che ormai staranno dormendo.
E’ facile non vedere Fabian e Salvatore, nei loro angoletti. Ma volendoli davvero vedere, non è umano desistere dal fare qualcosa per loro. Eppure nella città della politica, di quella che ora si professa buona politica, nessuno vuole vederli. Quanti edifici pubblici potrebbero, solo volendo, offrire l’unica cosa necessaria in queste situazioni, un tetto?
Roma è poi la città della Chiesa, di quella che dovrebbe essere la chiesa degli ultimi. Quanti senzatetto si potrebbero ospitare nelle oltre 900 parrocchie della capitale? Quanti? Domande che non possono avere una risposta, perché le domande stesse non esistono. Fabian e Salvatore non esistono. Loro sono gli invisibili. Vivono al margine della società, ed essa li ignora. Abbandonati dalle istituzioni politiche, da quelle religiose e da gran parte della società civile, loro non sono nessuno. Hanno un nome, ma nessuno glie lo chiede. Hanno una storia, ma nessuno vuole ascoltarla. Hanno delle sofferenze, ma nessuno se ne cura.
E poi arriva l’ipocrisia della società perbene. Passano un paio di giorni e su tutti i giornali si legge “Clochard muore assiderato”. In una via dell’Esquilino, a due passi dalla stazione. Con la notizia arriva lo sconcerto della società. Eppure quel senzatetto resta senza un nome. Commiserato da tutti. Nemmeno la sua triste fine è servita renderlo un qualcuno, ma un qualcosa piuttosto. Un articolo da prima pagina. L’argomento di discussione per la critica politica. Per qualche giorno, si intende. Poi lo scalpore della notizia è passato, e quel senzatetto è rimasto senza un nome. E’ rimasto invisibile.
E chi ha professato tanto rammarico per una morte tanto atroce, dov’era quella notte? Dov’è stato stanotte? Dove sarà domani notte? Chi leggendo quel’articolo di cronaca ha dichiarato inammissibile quanto accaduto, come mai sceglie di non vedere quello che succede ogni notte? Perché i tanti che versano nelle stesse condizioni di quell’uomo, i tanti Salvatore, i tanti Fabian, restano invisibili? Devono forse riuscire a morire assiderati per aspirare ad essere, nemmeno qualcuno, ma qualcosa?
Mi chiedo io, cos’è la “Sinistra” se non tutto questo? Cos’è la sinistra, se non il nome, di chi un nome non ce l’ha? Cos’è la Sinistra, se non la scelta di guardare proprio in quell’angolino buio della stazione Termini? E allora perché, in un paese governato dalla “Sinistra”, in una città governata dalla “Sinistra”, in un municipio governato dalla “Sinistra”, l’angolo di quella strada resta più buio e inosservato che mai?
La nostra gelida storia trova ora una fine. Cosa sarà dei nostri compagni di viaggio, nessuno lo sa. Dove saranno domani sera, non lo sanno nemmeno loro. Ma, caro Fabian, Caro Salvatore, ovunque siate, qualunque cosa facciate, buona fortuna. Una volta Ernesto Guevara disse: “Se tremi per l’indignazione davanti alle ingiustizie, allora sei mio fratello“. A quanti in queste gelide notte hanno dato riparo a chi non aveva un tetto, a quei ragazzi che quella sera hanno portato qualcosa di caldo a Fabian e Salvatore, a quella signora che ha portato loro una coperta, anche se non vi conosco, anche se tutto sommato non conosco nemmeno loro, Grazie.