di Daniela Giuffrida, Omissis, 14 gennaio 2015
È di ieri un agenzia (Ansa) secondo la quale per i giudici “Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato ma non si conoscono le cause della morte”.
“Per i giudici d’appello – recita l’agenzia – non ci sono dubbi che Stefano Cucchi, arrestato nell’ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, fu picchiato” ma sottolineano che non si conoscono le cause della morte. “Per i giudici – prosegue l’Ansa – presieduti da Mario Lucio D’Andria con Agatella Giuffrida, ‘le lesioni subite dal Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria, anche una spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento’”. Tutto da rifare dunque per il caso Cucchi.
Ma vogliamo raccontarvi un’altra storia, un’altra tragedia molto simile a quella accaduta al giovane geometra romano, avvolta dallo stesso mistero, svoltasi però in Sicilia, nella cittadina di Biancavilla, un grosso centro agricolo del catanese.
È il 24 marzo 2009, appena sette mesi prima del fattaccio di Roma, alle 14.00 i Carabinieri della stazione di Biancavilla, bussano alla porta della piccola abitazione della famiglia Castro che si sta accingendo a consumare il proprio pranzo.
È un ragazzo di 19 anni, Carmelo e siede a tavola con la famiglia quando i militari dell’Arma lo prelevano e lo portano in caserma. “Signora è solo una verifica – dicono –. Tra dieci minuti torna”, racconta la madre a «newsicilia». Quattro giorni dopo, il 28 marzo, la madre di Carmelo, verrà condotta nella camera mortuaria dell’ospedale Garibaldi di Catania per il riconoscimento del cadavere del figlio. 19 anni sono davvero molto pochi per morire, ancor di più, se si è “nelle mani”dello Stato.
Carmelo Castro era figlio di emigranti in Germania, aveva vissuto a Norimberga, ed era rientrato con la famiglia in Sicilia, appena quindicenne. Un giorno, Carmelo entra in una rivendita di tabacchi per comprare un pacchetto di sigarette, poco dopo due persone, a volto coperto, rapinano il negozio. Carmelo era entrato a volto scoperto, le telecamere lo avevano ripreso per bene. I Carabinieri ritengono che Carmelo sia stato il “palo” e che la sua testimonianza possa essere la sola cosa che possa aiutarli a risalire agli autori materiali della rapina.
La madre, con la sorella di Carmelo, si recano nella vicina caserma dei Carabinieri di Biancavilla per capire cosa sia accaduto. Ma il ragazzo non c’è: è stato portato a Paternò.
I familiari di Castro si recano dunque a Paternò, non riescono a vedere il ragazzo ma lo sentono gridare e piangere mentre un Carabiniere li fa uscire dalla caserma. La sorella riesce a vedere per un attimo Carmelo, mentre esce accompagnato da alcuni agenti. Il suo volto è gonfio e livido. L’ultima istantanea, la foto segnaletica che il 25 marzo riprende Carmelo vivo, scattata dentro il carcere di Piazza Lanza, mostra un gonfiore innaturale sia delle labbra che dell’intero viso, ma cosa sia successo nella caserma di Paternò non è dato sapere.
I vestiti del ragazzo vengono restituiti alla famiglia, sporchi di sangue e anche l’orecchino che Carmelo portava pare appaia rotto come gli fosse stato strappato dall’orecchio. Ma nessuna perizia viene eseguita per appurare l’eventuale presenza di segni di violenza avvenuti nei giorni prima del decesso.
Carmelo entra in carcere il 25 marzo, viene condotto in “isolamento”. Viene sottoposto a colloquio con lo psicologo di turno e questi rileva come il ragazzo fosse “fortemente provato dalla detenzione” ma, nella relazione dell’equipe, non sarebbero emersi “sintomi che potevano far presagire in alcun modo gesti anticonservativi”.
Carmelo muore il 28 marzo: secondo il verbale del pronto soccorso dell’ospedale Garibaldi di Catania, il ragazzo sarebbe “giunto cadavere” alle 12,30.
Ma cos’ è successo realmente?
Quel 28 marzo del 2009, Carmelo è “tranquillo e sereno” testimonia un agente di polizia penitenziaria, chiede di poter chiamare al telefono i propri genitori, ma non gli viene concesso. Alle 12,20, viene trovato da un altro agente, all’interno della sua cella impiccato con un lenzuolo intorno al collo, legato al letto a castello. L’agente, lancia l’allarme e interviene il medico di Piazza Lanza che trova il giovane “in stato di incoscienza” e in “arresto cardiorespiratorio”.
Il medico afferma di aver rinvenuto il corpo alle 12,35 e di aver disposto il trasporto in infermeria del giovane. Solo in un secondo momento Carmelo viene caricato su una macchina di servizio e portato in ospedale dove giunge alle 12,30 “già cadavere”. Cos’è successo quella mattina? Le telecamere di sorveglianza di quel reparto carcerario pur presenti, in quel periodo non funzionavano.
Se “suicidio” è stato, si è trattato sicuramente di uno “strano suicidio”.
Gli interrogativi sono e rimangono tantissimi:
- Perché il referto dell’ospedale specifica un orario e le testimonianze di agenti e medico del carcere un altro?
- Perché se il medico afferma di aver trovato il giovane in arresto cardiorespiratorio non ha praticato le importantissime pratiche di rianimazione, previste dai più elementari protocolli sanitari, durante il tragitto dal carcere all’ospedale? Forse perché Carmelo non era morto in quell’orario messo a verbale ma da prima?
- Come fa Carmelo, in mezz’ora soltanto a mangiare il suo pranzo ripulire le stoviglie, metterle in ordine, legare un lenzuolo ad un letto a castello, stringere l’altra estremità intorno al proprio collo e uccidersi.
- Perché dall’autopsia emergono incompatibilità dei resti alimentari con il menù del giorno.
- Come mai il ragazzo è riuscito a togliersi la vita se si trovava in un reparto dove vigeva “grandissima sorveglianza?”.
- Perché è stato condotto in ospedale in un mezzo privato e non con un’ambulanza con medico a bordo?
- Ma, soprattutto, come ha fatto ad impiccarsi ad un letto più basso di lui di parecchi centimetri, visto che il letto della cella misurava 1 metro e 52 cm. e Carmelo Castro era alto 1,75 cm?
- Perchè l’agente che trovò Carmelo con il cappio al collo in cella è stato trasferito in un’altra sede, nel ragusano, dopo l’accaduto e perché, anch’egli, dopo la morte del ragazzo ha tentato il suicidio cercando di impiccarsi?
Il 27 luglio 2010 il Giudice delle indagini preliminari, dottor Alfredo Gari, in seguito alla richiesta avanzata il 12 dicembre 2009 dal Pubblico Ministero, Assunta Musella, ha disposto l’archiviazione del caso. Ma viste le incongruenze emerse dalla ricostruzione dei fatti e dalla lettura degli atti, l’Associazione Antigone (onluss che si prefigge la tutela dei diritti e le garanzie del sistema penale) ha deciso di depositare un proprio esposto presso la Procura di Catania per chiedere la riapertura delle indagini, così come ha fatto la famiglia del giovane e l’Associazione A buon diritto di Luigi Manconi.
Sulla vicenda di Carmelo Castro, sono state presentate tre interrogazioni parlamentari al Senato, nessuna della quali ha avuto risposta. La prima dal Senatore e Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia Salvo Fleres il 6 maggio 2010, la seconda dal Senatore Felice Casson il 12 maggio 2010, la terza ancora dal Senatore Fleres, il 15 settembre 2010.
“Mio figlio può anche avere sbagliato – dice la madre in una intervista – ma era sotto la tutela dello Stato. L’ho visto in questa stanza vivo e poi l’ho rivisto morto dopo qualche giorno. Io vorrei che tutti si passassero una mano sulla coscienza. Vogliamo la verità, soltanto quella. Non cerchiamo vendette”.