Fino a qualche tempo fa parlare di felicità in economia era più complicato e atipico rispetto ad oggi. Gli esperti mainstream hanno proteso verso una semplificazione dell’essere umano a comportamenti stilizzati e fuorvianti. Ma ecco che si va riscoprendo una scuola italiana, contemporanea ad un gigante come Smith: l’economia civile del napoletano Antonio Genovesi. Leonardo Becchetti, docente di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, si è sempre speso per fornire un’alternativa ai modelli obsoleti che ancora dominano i mercati e la politica: di recente ha lanciato, insieme a più di 300 colleghi, un appello che chiede una “nuova Bretton Woods” per salvare l’eurozona. Quando lo incontriamo a margine del FILFest, il Festival della Felicità interna lorda tenutosi a Catania a dicembre, di fronte al pubblico cita una celebre critica di Robert Kennedy sul Pil e se la prende con la ricostituzione del “Partito sfascista”, quelli che vedono nero e si rassegnano a lasciare tutto com’è.
La politica è pronta ad accogliere l’economia della felicità come azione di governo?
Molti politici si sono accorti che non basta far crescere il Pil per rivincere le elezioni. I cittadini li rivoteranno solo se miglioreranno il loro benessere in senso generale. Alcune province in Italia stannno applicando i dati del Bes (Benessere Equo e Sostenibile, ndr), penso alla Provincia di Pesaro-Urbino, e il Governo ha detto che bisogna cominciare a valutare l’impatto delle leggi in base a quegli indicatori.
A proposito di politica: è possibile stimare se il Jobs Act produrrà variazioni di felicità negli italiani?
Sicuramente non aumenterà la felicità. Ma il problema è capire qual è la strada migliore per risolvere i problemi del lavoro nella globalizzazione. Ci sono due problemi fondamentali: primo, la concorrenza con il lavoro a basso costo nei Paesi del Sud rende difficilissimo mantenere le tutele che ci siamo conquistati. Secondo, la robotizzazione sta facendo sparire una serie di lavori meccanici. Di fronte a queste sfide ci sono due risposte. Una difensiva, che è quella del Jobs Act, il quale forse evita una disoccupazione maggiore. Oppure quella di migliorare le condizioni di lavoro nei Paesi del Sud del mondo per evitare questa concorrenza al ribasso, premiare le filiere socialmente sostenibili – chi “tratta bene” il lavoro – e anche puntare sulle competenze delle persone, non sulla loro capacità di ripetere lavori routinari. Diventa fondamentale, di fronte a questo mondo in trasformazione così rapida, difendere la persona e non necessariamente il posto di lavoro con un sussidio universale, aiutandola a riqualificarsi e rendendo possibile che cambi posto di lavoro durante la vita.
L’Ue potrebbe resistere al contraccolpo di una caduta dell’Euro, se l’appello per una nuova Bretton Woods restasse inascoltato?
Credo che avrebbe degli effetti drammatici. Il ritorno della Lira nelle tempeste delle fluttuazioni della speculazione internazionale sarebbe veramente pericoloso. Ci darebbe anche meno forza per combattere tanti problemi di corruzione e criminalità che abbiamo nel nostro Paese. Quindi io spero che l’Europa con le spalle al muro faccia dei passi avanti. Qualche piccolo progresso lo vediamo: Draghi pare vicino al quantitative easing (acquisto di titoli di Stato da parte della Bce, ndr), anche se non l’ha ancora iniziato. C’è un programma di politiche fiscali europee, anche se non giudichiamo ancora sufficiente il Piano Juncker. Italia, Germania e Francia hanno scritto una lettera a Bruxelles dicendo che non è più possibile tollerare paradisi fiscali dentro l’Ue. L’altro grande tema da noi sollevato, l’armonizzazione fiscale, viene preso seriamente in considerazione.
Complice forse anche il rallentamento dell’economia tedesca…
Devo dire che questo aiuta. Oggi è interesse di tutti i Paesi europei fare un passo avanti. Ci vuole più fiducia l’uno negli altri, che concretamente vuol dire condividere risorse.
Ma gli italiani si sentono più felici da quando sono anche cittadini europei?
All’inizio sicuramente sì, gli italiani sono sempre stati molto europeisti. Sono meno felici da cinque-sei anni a questa parte, perché vivono una “decrescita infelice” e un ripiegamento su loro stessi che va oltre i dati economici, vittime di una raffigurazione della realtà “sfascista”, che io credo aggiunga la paralisi della fiducia nel futuro a quella dei consumi e degli investimenti. Rispetto all’idea di investire con fatica, giorno per giorno, nel futuro, stanno prevalendo la disperazione e il tentativo di cercare la fortuna al gioco. Non è un caso se in Germania si investano 300 euro a persona nell’istruzione e ognuno ne spende 100 nell’azzardo, mentre in Italia è il contrario.
Cooperative, imprese sociali, no profit: l’economia civile è il post-capitalismo?
Sicuramente lo è, se noi intendiamo per capitalismo la massimizzazione della ricchezza dell’azionista. L’economia civile lotta contro tre riduzionismi: quello della persona ridotta a homo economicus, del valore ridotto a Pil e dell’impresa ridotta a massimizzazione del profitto invece che della creazione di valore economico da dividere equamente tra i portatori di interesse. La chiamiamo “civile” perché è un luogo in cui le persone possono realizzare le proprie potenzialità, vi è equilibrio di poteri tra cittadini e istituzioni e i temi della solidarietà e dell’equità sono molto meglio coltivati che nel sistema attuale.