In questa settimana, 55 anni fa, nasceva Luciano Ligabue, cantautore, regista e persino scrittore.
Ligabue è il rocker nazional-popolare. È riconosciuto, è amato, è odiato, criticato, imitato, idolatrato. È considerato un poeta dei giorni nostri grazie alle sue ballate capaci di far innamorare, ma anche per gli sfoghi in cui, in maniera sempre velata e metaforica ma non troppo, riesce a parlare di società e del suo modo di vedere le cose.
Ligabue, secondo me, ha raccontato un sacco di storie interessanti, soprattutto nei primi anni della sua carriera. Storie di paese, ispirate dalla lettura di “Altri Libertini” di Pier Vittorio Tondelli, suo compaesano, o dal suo maestro e scopritore Pierangelo Bertoli.
Oggi intorno a Ligabue si dice tanto. In particolare sento dire spesso che “ha smesso di scrivere qualcosa di bello nel 1999” oppure che “le sue canzoni sono tutte uguali”. In parte, forse, è vero.
È anche vero, però, che c’è bisogno di artisti come lui, che riescono a darci una cultura concreta. Una cultura sicuramente pop, che lascia spazio all’interpretazione e che – tra un verso e l’altro – ha la funzione di creare un po’ di speranza.
Poi può piacere o meno.