Quando Silvio Berlusconi scese in campo per la prima volta era il 1994 e io avevo 8 anni. Il Governo Berlusconi II fu il più longevo della storia della Repubblica: in quei 3 anni, 10 mesi e 12 giorni andavo all’ITIS e la mia insegnante d’italiano passava più tempo a dileggiare il Cavaliere che a spiegarci il pessimismo cosmico di Leopardi. Nel 2011, a 17 anni dalla famosa discesa in campo, Silvio Berlusconi si dimette, io, nel frattempo, vivevo da un paio di mesi in quella parte di Europa in cui la crisi sembrava non esistere. Insomma, facendo due conti, l’Italia in cui ho vissuto io è il Paese di Silvio Berlusconi. C’è chi l’ha odiato senza sosta, chi ha fatto il voltagabbana, chi gli invidiava le cene eleganti e chi credeva fermamente all’agiografia del self-made man di Arcore.
Silvio Berlusconi era (ed è) molte cose, ma pensandoci a mente fredda, era soprattutto un GPS politico. Silvio era la causa di tutti i mali o, in alternativa, di tutti i beni che toccavano al popolo. I partiti di centrosinistra facevano quasi esclusivamente campagna elettorale anti-berlusconiana. Con le dovute proporzioni era un po’ come con Benito Mussolini. Nell’antifascismo trovavi il cattolico, il liberale, il comunista, l’anarchico e quello a cui della politica non interessava nulla ma era stufo di essere pestato. Poi, a fascismo dissolto, si è capito che gli ideali non erano intercambiabili.
Un po’, lo ammetto, il Paese di Silvio Berlusconi mi manca, perché era un Paese semplice. Se non trovavi lavoro la colpa era di Silvio o dei comunisti che ostacolavano l’operato di Silvio. Non dovevi cercare di capire cosa sono i subprime, non dovevi preoccuparti delle politiche UE, le tasse le pagavi o le evadevi, entravi in cabina elettorale e votavi lui o chiunque tranne lui.
Silvio Berlusconi era la personificazione del potere. Quando un capo così carismatico non è più al centro del dibattito politico, capire dove si trova davvero il potere diventa difficilissimo: la finanza, per esempio, smette di essere un giocattolo per milionari, fatto di società off-shore e amicizie “giuste” (come preti e presunti stallieri), e diventa una macchina di ben altre dimensioni, che divora rapidamente le vite di milioni di persone. Il Paese, oggi, paga pesantemente il disastro economico e sociale iniziato nel 1994, ma è anche un Paese che avalla, per paura e apatia, quegli stessi soprusi che mai avrebbe perdonato al nemico Silvio: dal Jobs Act alla Buona Scuola, dal conservatorismo sui diritti civili all’anacronistica celebrazione del capitalismo (l’EXPO) già fortemente voluta dalla sinistra di Prodi.
Uscire dal berlusconismo è stato come diventare adulti di colpo. Quando c’era lui stavamo male, ma sapevamo cosa fare. Da quando lui non c’è più stiamo ugualmente male, ma non sappiamo più con chi prendercela. Ora le differenze ideologiche sono letali, la confusione del popolo è tanta davanti a una politica e ad un’economia in cui il corrotto e lo schiavista si rivelano non come l’eccezione di Arcore, ma come la norma universale. Che il Paese senza Silvio Berlusconi potesse essere anche peggiore del Paese di Silvio Berlusconi giuro che in quei 17 anni non l’avrei nemmeno immaginato.