Domenica scorsa si sono svolte in Turchia le elezioni per il rinnovo del parlamento. Considerate cruciali sia dal governo che dall’opposizione, il voto turco ci consegna un paese spaccato a metà: una parte che vuole mantenersi fedele ai principi laici e democratici del fondatore della Turchia moderna, un’altra che desidera il ritorno del Paese a potenza islamica mediorientale.
I numeri
La Repubblica di Turchia, nata nel 1922 grazie a Mustafa Kemal (detto “Ataturk”, padre dei turchi) conta 75 milioni e mezzo di abitanti e un’economia che la pone al 17esimo posto per prodotto interno lordo. Negli ultimi anni la crescita turca è stata fra le più dinamiche, con costante afflusso di investimenti stranieri da Unione Europea (la quale riceve il 59% delle esportazioni turche), Stati Uniti, Russia e Giappone. Le riforme adottate dal’AKP, il partito di Erdogan, presentano una forte connotazione liberista: riduzione dei controlli statati sugli scambi esteri, privatizzazioni, cambio della moneta (nel 2005 viene introdotta la nuova lira turca). Al voto di domenica erano chiamati a votare quasi 55 milioni di turchi. L’affluenza è stata dell’86.63%, tre punti e mezzo in più rispetto alla tornata del 2010.
Il sistema turco
La Turchia è una repubblica parlamentare monocamerale in cui il Presidente della Repubblica – eletto dal popolo grazie a una riforma costituzionale fortemente voluta dal presidente Erdogan – nomina il Primo Ministro. Per entrare nella Grande Assemblea Nazionale è necessario che un partito superi la soglia di sbarramento del 10%, la più alta nel mondo, seconda solo a quella del Liechtenstein in cui è fissata all’8%.
I partiti
La limitativa soglia di sbarramento turca in base ai sondaggi dava solamente a quattro partiti la possibilità di sfidarsi in parlamento. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del Presidente Recep Tayyip Erdogan e del Primo Ministro Ahmet Davitoglu. Il partito, erede del Partito della Virtù, propone quella che gli analisti esterni hanno chiamato “politica neo-ottomana”, anche se il termine è stato più volte deplorato dai fedelissimi dell’ex sindaco di Istanbul. Il neo-ottomanismo cerca di riportare la Turchia da potenza volta verso l’Occidente, come nei progetti del suo padre della patria, a una più medio-orientale, intessendo rapporti con potenze filo-islamiste o dichiaratamente islamiste. Non a caso uno degli scandali che più è imperversato nella campagna elettorale è stato proprio quello sulla fornitura di materiale bellico all’ISIS – in chiave anti-siriana – da parte della Turchia. Oltre alla politica estera, l’AKP ha puntato molto su una politica liberista e conservatrice, sdoganando quelli che erano alcuni dei punti salienti del kemalismo, l’ideologia alla base della Repubblica. Più a destra dell’AKP vi è il Partito del Movimento Nazionalista (MHP): un tempo anti-comunista (non a caso il partito venne fondato da un colonnello addestratosi negli USA per conto della NATO in piena guerra fredda), oggi il partito rivendica un fortissimo nazionalismo (ostile quindi al riconoscimento dei diritti delle minoranze) e un marcato conservatorismo. A sinistra troviamo il Partito Popolare Repubblicano (CHP), guidato da Kemal Kilicdaroglu. Singolare che all’inizio della Repubblica di Turchia il partito, fondato dallo stesso Kemal Ataturk, fosse il solo legale nel Paese. Oggi al contrario il partito versa in una forte crisi, riuscendo a mantenere soltanto le roccaforti nella parte europea della Turchia e sulla costa. A livello ideologico, il CHP si descrive come kemalista (fedele alle “sei frecce” di Ataturk) e socialdemocratico, essendo associato al Partito del Socialismo Europeo. Più a sinistra l’HDP, il Partito Popolare Democratico, di Selattim Demirtas, ha saputo trovare spazio proprio nella divisione: il partito ha saputo unire profondamente i curdi, che rappresentano il serbatoio di voti più ampio del partito, il movimento femminista e omosessuale, le minoranze etniche e religiose del paese e i gruppi più o meno ampi della sinistra. Il partito viene però percepito dall’opinione pubblica turca come erede del PKK – a favore di questa posizione vi è da considerare che è stato eletto parlamentare nelle file dell’HDP la nipote di Abdullah Olacan, leader del PKK e oggi all’ergastolo nell’isola di Imrali (unico detenuto) –.
Gli scenari
Il voto di domenica ha segnato il punto di rottura della luna di miele durata 13 anni fra l’AKP di Erdogan e l’elettorato turco: gli scandali che hanno coinvolto il monocolore AKP, le rivolte popolari e la torsione autoritaria e conservatrice presa da Erdogan hanno provocato un abbassamento dei consensi maggiore del previsto, pur mantenendo la maggioranza relativa dei voti. L’exploit della sinistra turca ha evitato ad Erdogan di avere la maggioranza dei 2/3 che gli avrebbe consentito di approvare una riforma costituzionale in chiave presidenziale senza arrivare a referendum. Ad ogni modo sarà difficile per le opposizioni, molto divise e diverse sotto ogni aspetto, unirsi per formare un governo per la prima volta da 13 anni non a guida AKP. Probabilmente la Turchia tornerà al voto a luglio, e questa volta dalle urne dovrà uscire un governo capace di traghettare il Paese sul Bosforo in una direzione o nell’altra: o verso la Vecchia Europa o verso il bollente Medio Oriente.