Cari compagni universitari,
so di cogliere molti di voi nel pieno della sessione di settembre, attirando, quindi, le vostre ire. Avrei, però, bisogno di un contatto diretto con voi per parlare di quell’impegno quotidiano che ci carica di responsabilità e aspettative per il futuro: la nostra università. Al di là delle analisi sociologiche, che lascio a chi di dovere compiere, essendo ormai giunto al quinto e ultimo anno di Giurisprudenza, vedendo, quindi, il traguardo avvicinarsi sempre più, ho iniziato a guardarmi attorno per capire che fare della mia vita; guardando la società e osservando la mia università, ho iniziato a svolgere delle riflessioni sul nostro approccio agli studi e a quello che dovrebbero conferirci.
Arriviamo da anni di retorica del tipo “voglio fare ingegneria per avere una preparazione migliore”, “tento il test di medicina così poi avrò un lavoro sicuro” (eh sì, perché il vero scoglio è solo il test d’ingresso) e altre simili, tra cui la mortificazione della cosiddetta categoria di “scienza delle merendine”, per non parlare dell’evergreen “tu fai lettere, non troverai mai un lavoro”. È evidente che chi lo afferma o mente, sapendo di mentire e lasciandosi andare a semplificazioni dalla banalità disarmante, oppure è da tenere in considerazione quanto il due di coppe per fare primiera a scopa.
Quello che sempre più mi pare di notare frequentando il mondo universitario, qualsiasi facoltà o qualsiasi ateneo si prenda in considerazione, è che noi, se non anche chi ci ha preceduto, siamo una generazione che coltiva delle false aspettative per tutto il percorso di studi. Per circa cinque anni siamo cullati da continue illusioni sul nostro futuro, che si basano su correlazioni tra il titolo di studio, la competitività sul mercato del lavoro e il blasone dell’ateneo. Si badi, i primi a non correggere questo errore di valutazione sono gli stessi professori.
Certo, senza essere troppo naif, serve anche la consapevolezza di come funziona il mondo, per quel che possiamo percepire dallo spioncino da cui sbirciamo. Tuttavia, dal mio professore preferirei sentirmi dire che nella vita potrò giocarmi adeguatamente le mie carte solo se metterò alla prova le conoscenze che avrò conseguito, piuttosto che basarmi solamente sul nome dell’ateneo. Certo, Roger Abravanel, con un certo fondamento pragmatico, da tempo ci ricorda che ormai non conta più cosa si studia, ma dove si studia. Senza nascondersi dietro una foglia di fico, nessuno può ragionevolmente dubitare che tutti questi siano degli elementi da prendere in considerazione, ma è l’approccio a fare la differenza. Essere consapevoli che gli atenei non sono tutti uguali e che determinati titoli siano più flessibili di altri è un buon punto di partenza, ma non significa adagiarsi sugli allori in attesa di una cavalcante carriera prêt à porter all’indomani della laurea.
Noi studenti ci nutriamo di false illusioni perché riponiamo l’attenzione eccessivamente al risultato a breve termine, senza alzare lo sguardo fino a vedere l’orizzonte. Ignorando i commenti che si trovano sui gruppi su Facebook degli universitari, dove si svolgono continue gare a chi frequenta l’università più severa, generalmente gli atenei italiani non brillano più per la loro selettività ormai da tempo. C’è gente che piange nei corridoi se prende 27. È evidente che poi, dopo cinque anni di voti eccellenti, lo studente sviluppi delle aspettative, le quali vengono rigorosamente disattese al primo confronto con la realtà. È un meccanismo perverso per cui eserciti di asserite eccellenze vengono costantemente sfornati dagli atenei, mediamente carichi di pretese non più così abbordabili all’inizio della propria carriera. Inoltre, il confronto con l’estero è impietoso, non solo per quanto riguarda i ranking, ma anche e soprattutto nell’approccio nell’affrontare lo studio che hanno i nostri colleghi stranieri. Se mediamente gli studenti italiani si dimostrano più propensi allo studio sui libri, è innegabile che si riscontri un gap sul piano delle altre abilità, tra cui far ricerca, produrre paper, approfondire i concetti di base non solo in funzione dell’appello imminente.
Probabilmente è uno sforzo titanico quello di ribaltare questa tendenza utilitaria nella formazione delle persone, ma è forse altrettanto vero che argomenti ovvi, come la passione per quello che si fa e la consapevolezza dei propri mezzi, ponderando le scelte, senza costantemente piegarle alla frenesia quotidiana, sono le armi vincenti per una propria realizzazione e per una soddisfazione personale, che porti, in ultima analisi, a qualcosa di semplice, come la felicità.