Eccomi qua, ho superato la mia reticenza e sono tornato a scrivere per la seconda volta in questo spazio libero anche se, questa volta, con le mani legate. In senso metaforico per fortuna. Ebbene, è successo di nuovo: il mio account Facebook è stato bloccato per un mese, un’altra volta. La quarta forse, o la quinta. Niente di grave, certo, il problema però non è che non posso più pubblicare foto del mio cane (che è bellissimo).
Il problema è la crescente difficoltà che provo nell’accostare alla parola “Facebook” la parola “libertà”. Più il tempo passa e più queste due parole mi sembrano distanti.
Alzi la mano chi ha letto le Condizioni di utilizzo e gli Standard della Comunità. Quante cose abbiamo accettato senza leggere? Fin dal primo momento, con la nostra iscrizione, abbiamo accettato di rinunciare a qualsiasi strumento di accesso alla giurisdizione ordinaria. Con la conseguenza di essere in preda agli umori di un “Colui che non può essere identificato”.
Come vi dicevo mi hanno bloccato. È anche difficile trovare le parole per raccontarlo, perché non sai chi ti blocca, perché realmente ti blocca, e a chi rivolgerti se pensi, a ragione o a torto, di avere subito un’ingiustizia. Un motivo in realtà ci sarebbe, mi hanno fatto sapere che non avrei rispettato gli standard della comunità scrivendo quanto segue: “È morto Totò Riina, non ci mancherai, ci verrebbe da dire, in un Paese in cui ancora troppi pensano (e dicono): meglio mafiosi che froci”. Sia chiaro che il termine “froci” non comporta di per sé una censura perché ho constatato che viene ampiamente utilizzato e tollerato. A quanto pare su Facebook bisogna sciacquarsi la bocca prima di parlare di Zu Totò, e sono in molti a pensarlo. Anche perché gli Standard della Comunità consentono alle persone di “sostenere la legalità di attività criminali”. E ci mancherebbe, siamo in democrazia.
Non sappiamo cosa diventerà Facebook e lo spazio che questo occuperà nelle nostre vite. Quel che è certo è che già ora Internet è imprescindibile per la nostra società, è ovunque e non possiamo farne a meno. E sarà certamente sempre peggio o meglio, a seconda di come la si veda. Tant’è che si discute anche di inserire Internet in Costituzione come uno dei diritti sociali inalienabili in quanto “precondizione all’esercizio nelle nuove democrazie di tutti i diritti: dalla libertà di espressione (art. 21 Cost.), dal diritto all’istruzione (art. 34 Cost.), all’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e al buon andamento della PA (art. 97 Cost.).”
Che fare quindi davanti alla tirannia della creatura di Zuckerberg? Ci dobbiamo piegare. “Calati juncu ca passa la china”, dice un proverbio siciliano. Piegati giunco che passa la piena, resisti in attesa di tempi migliori. Devo ammettere che ci si abitua facilmente a “piccoli” soprusi come questo, ci si scherza anche sopra, qualche amico scrive #JeSuisHermès. A proposito di detti siciliani voglio citare un altro aforisma, di Gesualdo Bufalino: “Tale è la forza dell’abitudine che ci si abitua perfino a vivere”. Chissà a cos’altro dovremo abituarci, se vorremo continuare a far parte della comunità digitale più grande del mondo.