“Sento in alcuni colleghi la voglia di tornare alla “normalità”, che però significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno i mafiosi da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro lavoro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato”.
Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, p.159
Lui, da fine giurista e lungimirante innovatore, avvertiva già quella voglia di “normalità” nel Paese nei confronti della lotta alla mafia. Quando riferì quelle parole a Marcelle Padovanì per il suo libro, mancavano pochi mesi alla sentenza definitiva del Maxiprocesso di Palermo. In Appello i giudici avevano smontato l’impianto unitario di Cosa Nostra: condanne sì, ma più basse. Avvocati, radicali e stampa di regime esultante perché era saltato “il Teorema Buscetta”, era stato sconfitto “il giudice sceriffo”, quello che si metteva le bombe da solo. Addirittura, nessun colpevole per l’omicidio del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, della moglie e dell’agente Domenico Russo.
A presiedere l’appello ci doveva andare un altro giudice, noto per sentenze dure contro Cosa Nostra: Antonino Saetta. Uccisero lui e suo figlio e, sia come sia, l’Appello andò esattamente come voleva Totò Riina.
Ora, se certa gente trattasse la lotta alla mafia non come un argomento da aula di tribunale , 0 peggio di università, ma come lotta per la difesa della democrazia e della libertà al fine di dare giustizia e verità non solo ai parenti di è stato ammazzato ma all’Italia intera, forse leggeremmo meno commenti festanti in giro per le due sentenze che fanno tornare indietro di decenni la comprensione e il contrasto al fenomeno mafioso.
La prima, quella su Mafia Capitale. La VI sezione penale della Cassazione, con una sentenza che compie parecchi passi indietro rispetto a sentenze ben più avanzate, ha stabilito che Buzzi e Carminati erano a capo di due organizzazioni distinte, annullando la sentenza d’Appello e riconfermando quella di primo grado. Tutti assolti? No, restano i crimini e le condanne, tanto che non si capisce l’esultanza di avvocati e giuristi, che invocano addirittura le scuse. Di chi? Dei condannati alle vittime, alla città e all’Italia intera? Sarebbero ben accette, ma ancora non si son viste. Per il resto, attendiamo le motivazioni ma è già ben chiaro che per certa magistratura giudicante il metodo mafioso parla solo siciliano, calabrese, napoletano e pugliese: non è la prima volta che davanti ai requisiti previsti dal 416bis (che qualcuno dovrebbe rileggersi ogni tanto), non si agisce di conseguenza (basti pensare al precedente della Banda della Magliana).
La seconda, ieri, della Corte Costituzionale, che dichiara incostituzionale il comma 1 dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, leggi ergastolo ostativo per i mafiosi e i terroristi che non abbiano deciso di collaborare con la giustizia, una delle norme ideate da Falcone quando era a capo degli Affari penali del Ministero della Giustizia e approvata solo dopo le bombe di Capaci (perché in questo Paese deve prima essere versato del sangue per approvare norme serie antimafia, come accadde nel 1982 per il reato di associazione mafiosa, approvato solo dopo gli omicidi di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa).
La Corte – si legge nella nota ufficiale – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.
Come faccia un boss mafioso a dare piena prova di partecipazione al percorso rieducativo, senza aver espresso la volontà di collaborare con la giustizia, non è dato sapere: collaborazione che, per altro, non è sufficiente a stabilire che una volta fuori non torni più a delinquere, visto che la legge non richiede una “conversione morale” sulla via di Damasco per accedere ai benefici (sono note le storie di pentiti che dopo anni sono tornati sul territorio di appartenenza e, senza rivali, hanno provato a ricostruire il proprio clan; l’ultimo caso, stamattina).
I giuristi che esultano dicono: non cambia nulla, semplicemente la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Bene, se non cambia nulla, perché l’abolizione dell’ergastolo ostativo era tra i punti del papello di Riina? E perché esultano gli avvocati e le famiglie dei boss condannati all’ergastolo, alcuni dei quali in regime di 41bis, il carcere duro, altra eredità di Falcone che puntualmente si cerca di scardinare in nome dei diritti umani?
E se non cambia niente, il passaggio da previsione assoluta a relativa riapre, come accadeva fino agli anni ’90, spazi di manovra per fare pressioni nei confronti della magistratura di sorveglianza da parte delle organizzazioni mafiose. Come ha detto Sabella, ora chi li difende? E chi difende i cittadini di una città dal rischio che un magistrato di sorveglianza ascolti le sirene del boss e si metta ” a disposizione” (come per altro accaduto spesso in passato e anche oggi)?
La cosa più insopportabile è la spaventosa retorica con cui si celebra Giovanni Falcone nell’anniversario della sua morte, salvo sistematicamente smantellare la sua eredità sul piano giudiziario nei restanti giorni dell’anno. Lui, Borsellino, vanno bene, ma solo come feticci da sventolare alle commemorazioni di uno Stato che non è ancora riuscito ad assicurare verità e giustizia sulla loro morte (e quella di tanti altri servitori dello Stato e cittadini).
Ma dico io: con che coraggio certa gente pronuncia il nome dei dottori Falcone e Borsellino, quando esultano alla stregua dei loro carnefici di fronte alla cancellazione di pezzi della loro eredità dall’ordinamento giudiziario?