“O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico
abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?”
(Norberto Bobbio)
Il 12 novembre di 30 anni fa Achille Occhetto, ultimo segretario generale del Partito Comunista Italiano, annunciò a sorpresa dalla storica sede della Bolognina che il più grande partito comunista d’Occidente avrebbe cambiato nome e si sarebbe trasformato. Tre giorni prima c’era stato l’annuncio della libera circolazione dopo 28 anni tra Germania Ovest e Germania Est, con la conseguente caduta del Muro di Berlino: con la fine del suo simbolo, era finita anche la Guerra Fredda.
Il vertice del partito non era stato informato e il travaglio del cambio del nome al PCI durò due anni, dividendo famiglie, amicizie e provocando una ferita che ancora oggi non si è rimarginata.
In uno dei suoi ultimi interventi prima di morire, Enrico Berlinguer scrisse: «Secondo qualcuno il nostro partito dovrebbe finire di essere diverso, dovrebbe cioè omologarsi agli altri partiti. Veti e sospetti cadrebbero, riceveremmo consensi e plausi strepitosi, se solo divenissimo uguali agli altri, se decidessimo di recidere le nostre radici, pensando di rifiorire meglio. Ma ciò sarebbe, come ha scritto Mitterrand, il gesto suicida di un idiota».
Ecco, il problema sta proprio lì, in quella Svolta della Bolognina che voleva essere rigenerazione della tradizione traghettando verso il nuovo ma finì per essere un semplice taglio delle radici. Il peccato originale della Sinistra post-89 sta in quell’operazione, che archiviò in fretta e furia quell’esperienza collettiva unica al mondo, senza darsi alcuno straccio di identità chiara e definita, nonostante il travaglio autentico e lo sforzo sincero di Achille Occhetto, che si trovò di fronte all’impossibilità di far sopravvivere un partito che si chiamasse “comunista” dopo il disastro sovietico con il problema che il naturale approdo, il fronte socialista, in Italia era occupato da Craxi e dalla sua corte di nani e ballerine (e di uso spregiudicato del potere); si inventarono quindi il Partito Democratico della Sinistra senza però dotarlo di una cultura di partito coerentemente democratica aperta ai movimenti e ai cittadini, che in quel momento in Italia sarebbe stata rivoluzionaria.
Si sono preoccupati così tanto negli ultimi 30 anni di farci sapere che non erano più (e in alcuni casi non erano mai stati) comunisti, che hanno finito col tagliare le radici senza preoccuparsi minimamente di farci sapere che cosa fossero veramente e cosa volevano fare per dare rappresentanza a quegli ideali. Anzi, hanno progressivamente smesso di coltivare una presenza organizzata nella società, suscitando lotte e movimenti, pensando di poter vivere di rendita.
Si sono tenuti invece l’unica cosa che sarebbe dovuta veramente essere gettata alle ortiche, lo spirito di Budapest, vale a dire la forma mentis per la quale la legittimità di una linea politica viene fondata non sulla coerenza dei comportamenti ma sulla totale e incondizionata fiducia e difesa a oltranza dei gruppi dirigenti, a prescindere dalle proposte e dagli ideali espressi. Il Segretario, insomma, ha sempre ragione e bisogna sempre sostenerlo, qualsiasi cosa dica o faccia, anche se si dimostra incoerente politicamente.
Il risultato di questa trasformazione a metà, che non è si è certo risolta ma anzi aggravata con la fondazione del Partito Democratico, è stato il deserto politico e culturale in cui viviamo ancora oggi, abitato da una marea di orfani e figli unici come sono io e tantissimi altri giovani, che non hanno più alcun punto di riferimento vivente ma devono rifarsi a personaggi come Enrico Berlinguer, le cui idee non a caso sono state tra i libri di politica più letti dell’estate.
In un paese normale, un partito che si definisce erede (ma non è altro che un mero successore cronologico) di quella tradizione, avrebbe dovuto quanto meno celebrare l’anniversario più importante della sua storia con una grande kermesse aperta a cittadini e movimenti al fine di definire un orizzonte ideale su cui basare una strategia comune per arginare il neofascismo in salsa padana non con lo spauracchio del fascismo ma con la forza delle idee, della buona amministrazione, della pulizia e della competenza dei candidati, raccontando un’idea di Paese più bella e più libera.
Invece no, non succede nulla. Si assiste impotenti al disastro ragionando di tatticismi e di formule elettorali buone solamente per perdere le prossime elezioni. Invece di riprendere il filo laddove si è interrotto, quando si sono scompaginati un alfabeto e una cultura, che era tra le più progressiste d’Europa, prendendo l’eredità del più grande partito comunista d’Occidente (che era cosa ben diversa dal comunismo sovietico) per metterla in soffitta, banalizzandola e calpestandola.
Una Sinistra che vuole avere un futuro dovrebbe anzitutto recuperare e difendere la memoria di quello che è stata e che ha rappresentato, usando in maniera seria e intelligente le nuove forme di comunicazione, senza scimmiottare Salvini. Oggi più che mai serve, prima ancora di un partito, una cultura della Sinistra aperta e moderna, che si liberi di quella mentalità ottusa da trinariciuti di partito e ricostruisca l’alfabeto ideale con cui rispondere a quel bisogno di sete e di giustizia che è maggioritario tra quello che era il suo vecchio popolo e che ora o non vota o vota a destra, perché la Sinistra viene percepita come “casta” a difesa dei “poteri forti”.
Oggi non si vede la differenza tra Destra e Sinistra perché chi si definisce di Sinistra è ispirato solo da interessi e, per citare Josè Saramago, «non ha la benché minima schifosa idea di come cambiare il mondo». Enrico Berlinguer chiudeva la famosa intervista a Ferdinando Adornato su l’Unità, nel 1983, con queste parole:
Quali furono infatti gli obiettivi per cui è sorto il movimento per il socialismo? L’obiettivo del superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni. E poi: la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento fra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura. Ebbene, se guardiamo alla realtà del mondo d’oggi chi potrebbe dire che questi obiettivi non sono più validi? Tante incrostazioni ideologiche (anche proprie del marxismo) noi le abbiamo superate. Ma i motivi, le ragioni profonde della nostra esistenza quelle no, quelle ci sono sempre e ci inducono ad una sempre più incisiva azione in Italia e nel mondo.
Le ragioni profonde dell’esistenza della Sinistra ci sono ancora, quand’è che ci decidiamo a costruirne una degna della storia che in Italia ha rappresentato? Nove anni fa nasceva questo blog, “giovani nati dopo la caduta del Muro di Berlino alla disperata ricerca di Sinistra“. Lo siamo ancora, purtroppo. Ma non è questo il momento di darci per vinti.