Se ne è andata mercoledì scorso, il giorno dopo Battiato, quattro giorni prima il 29° anniversario della Strage di Capaci. Si chiamava Emilia, e forse qualcuno di voi lo ha saputo dai giornali, perché di cognome faceva Cestelli e per 51 anni è stata al fianco di Nando dalla Chiesa, quasi 44 da moglie.
“La ragazza di Vicolo Pandolfini”, l’ha salutata il giorno dopo lui su Instagram, luogo di Palermo dove si giurarono amore eterno una vita fa. La “biondina”, per chi leggeva il suo blog o i suoi libri, “Emù” per chi ha avuto il privilegio di conoscerla. Io sono stato tra quelle persone.
La incontrai la prima volta in Sala Alessi, a Milano. Era appena tornata dalla sua Palermo in stampelle e si godeva il successo di un incontro che aveva organizzato con Gian Carlo Caselli, all’epoca procuratore capo di Torino, dopo un pomeriggio di passione passato per l’occupazione della sala da parte dei centri sociali che contestavano i processi ai NoTav (che non c’entravano nulla con l’incontro).
“Buonasera Emilia”, le dissi, dopo aver letto di lei per mesi sul blog del prof, mentre si allontanava verso l’uscita. Mi guardò un attimo per capire se mi avesse già conosciuto da qualche parte, ma le facilitai il compito aggiungendo subito: “Non ci conosciamo, mi chiamo Pierpaolo, sto facendo la tesi con Nando, volevo solo salutarla…”. Mi squadrò da capo a piedi e disse solo: “Beh, in bocca al lupo allora!”.
Da quella prima volta in stampelle, era il 28 marzo 2012, è stato un crescendo rossiniano di amicizia, affetto, passione e risate. E soprattutto eventi.
Sì, perché a Milano dietro i grandi eventi, civili e antimafia, in genere c’era anche e soprattutto lei, ma non voleva che si sapesse, non amava mettersi in mostra. Insieme a Edda Boletti, altra protagonista della vita civile milanese e nazionale, era stata tra le attiviste dei Girotondi, tanto che c’è una sua foto in un archivio fotografico di quegli anni in cui è indicata anzitutto come politica italiana (anche se non si candidò mai a niente) e solo dopo come moglie di Nando dalla Chiesa.
Nel dicembre 2013 ci aiutò ad esempio a fondare l’associazione per raccogliere i fondi per WikiMafia. Le proposi la vicepresidenza, ma lei rifiutò: “Non voglio che qualcuno pensi voglia mettermi in mostra, sfruttando il cognome di Nando. Io faccio quello che ti serve, ma non voglio cariche”. Al riparo dai media, Emilia faceva, e faceva tanto. Faceva anzi più di ogni altro. Sempre lei fu all’origine dell’idea di una petizione last minute, il 2 gennaio 2014, per riportare in prima serata il documentario dedicato a Pippo Fava su Rai3, la prima di tante battaglie vittoriose insieme.
Quando nel 2015 le raccontai cosa volevo fare con MafiaMaps, mi disse: “Tu sei completamente pazzo!“, frase che puntualmente mi ripeteva ogni volta che le raccontavo di qualche nuova idea o evento. Il giorno dopo mi fece un bonifico da 500 euro per sostenere il progetto e subito la chiamai: “Chi è più pazzo, il pazzo o il pazzo che lo segue?“
Ricordo ancora un pranzo a Fano, al Festival della Saggistica. Arrivò un ospite televisivo importante che si presentò a tutti. Quando arrivò davanti a lei, rispose un po’ ironica: “Io non sono nessuno”.
Era invece una grande donna, di quelle con la G maiuscola. La vidi, in tutta la sua grandezza, quando il 19 gennaio 2016 fummo invitati insieme a parlare nell’Aula Magna del Tribunale di Milano, per ricordare le vittime innocenti delle mafie.
Lei si prese solo qualche minuto: “Voglio dire solo questo: il giorno prima del mio matrimonio incontrai per strada una mia cara amica a Palermo e le chiesi se voleva venire a vedermi in Chiesa. Mi rispose che le sarebbe piaciuto ma non se la sentiva, “Sai, non si sa mai quello che può accadere di questi tempi…” dico solo questo.” E dopo aver detto questo, lasciò il microfono e di sasso tutte le autorità presenti. Persino il matrimonio con l’amore della sua vita dovette viverlo blindata, a causa del terrorismo.
Non amava far polemica ma quando c’era da dire le cose non stava zitta. Dopo la morte di Provenzano, disse pubblicamente: “E’ morta una mala pianta, i suoi semi erano semi di morte”, e un anno e mezzo dopo, quando toccò a Riina, si limitò a dire: “Ho altro a cui pensare”.
E a quelli che ciclicamente invocavano i diritti umani per i boss stragisti detenuti, ricordò che il vero fine pena mai era il suo e quello delle famiglie delle vittime innocenti del potere mafioso.
E la vedevi la sua pena riemergere sul suo volto da eterna ragazzina in quei 3 settembre, nei 23 maggio, nei 19 luglio: una pena così grande da riuscire a rabbuiare anche lei, donna dal sorriso dolcissimo con un’allegria e una voglia di vivere che riusciva a far luce sempre, anche quando ogni luce sembrava spegnersi.
Questo, alla fine, mi manca di lei: sapeva come diradare le nubi che ciclicamente questa vita addensa su ognuno di noi. Ecco perché, dopo tutto quello che avevamo condiviso e per tutte le volte che c’è stata senza che le fosse chiesto, consideravo Emilia Cestelli una seconda madre.
Tra le centinaia di episodi che in questi giorni mi hanno attraversato la mente, mi ricordo cosa mi disse in riva al mare, il giorno del mio onomastico, mentre le confidavo le mie pene d’amore: “Non perdere nemmeno un secondo della tua vita con chi non ha voglia di vedere chi sei. Dedica tempo a chi l’ha capito”.
E di questo mi rammarico, di non averle dedicato abbastanza tempo, lei che meritava tutto il tempo del mondo. Ed è per questo che non me ne sono ancora fatto una ragione. Lei, la ragione, ci ha provato a prepararmi al peggio, persino l’ultima volta che ci siamo visti, pochi giorni prima che ci lasciasse, quando la morfina l’aveva resa una lucciola sfocata rispetto al sole che era.
Ma il cuore non voleva saperne e tuttora non si dà pace e non crede a quel che è successo. Forse non ha voluto rivivere tutto quello che ho passato a 14 anni, quando “il male del secolo” si portò via mio padre. O forse perché, fedele a Gramsci, il mio pessimismo della ragione ha sempre avuto la peggio contro il mio ottimismo della volontà.
So solo che quando sono entrato nella sua camera da letto, il giorno dopo la sua “partenza”, sembrava una principessa elfica dei racconti di Tolkien, bionda e bellissima. E anche in quel momento, di fronte al cuore che faceva a pugni con la ragione, è riuscita a darmi forza, con quel viso che sembrava più giovane di 20 anni. Ci ha raccontato il Prof che è stata grande fino all’ultimo. E non poteva essere che così, dopo una vita di infinito amore ma anche di grande pena.
Mi rendo conto solo ora di quanto avrei bisogno di una sua parola, di un suo sguardo, di un suo gesto. Di quegli attimi passati insieme da fotografare di nuovo e di tutti quelli che non ho fotografato. Non credo riusciremo mai a organizzare evento, iniziativa o commemorazione che sia in grado di restituirle tutto quello che ci ha donato in vita.
E dopo che ho visto il suo, il nostro Prof, presentarsi alla commemorazione di Falcone nemmeno due giorni dopo i funerali della compagna di una vita, quell’idea che mi ero fatto da tempo ora è una granitica certezza: quello che lo Stato italiano deve alla famiglia dalla Chiesa non riuscirà a ripagarlo nemmeno in venti generazioni.
Buon vento, Emù, il Prof ha detto di cercarti tra le stelle, ma tu non hai mai smesso di fare luce nei nostri cuori.