Le parole sono importanti, e francamente dopo quello che è successo negli ultimi dieci giorni tanto al Nord quanto al Sud Italia si impone un cambio di narrazione. “Cambiamento climatico” è un’espressione oramai obsoleta e riduttiva. C’è chi propone “disastro climatico”, ma l’origine di tutto questo ha un nome ben preciso: capitalismo. Più precisamente, capitalismo post-fordista (o liquido, se vogliamo usare la definizione di Bauman).
Il capitalismo liquido dei nostri giorni
Diverse sono state negli ultimi secoli le definizioni di capitalismo, ciascuna diversa dall’altra in base alla prospettiva teorica di riferimento. Per darne una definizione minima, potremmo limitarci a sottolineare che la caratteristica distintiva del capitalismo, come ci ricorda Dennis Mueller [The Oxford Handbook of Capitalism, p. 8], consiste nella proprietà dei mezzi di produzione da parte di privati e imprese, che si muovono in un’economia di libero mercato. E che alla base del paradigma di questo complesso sistema economico in auge sin delle economie mercantili rinascimentali vi è il postulato, a partire dalla Rivoluzione industriale, dell’homo oeconomicus, cioè quella concezione dell’azione umana in base alla quale ciascun individuo tenta di massimizzare il proprio utile effettuando una serie di scelte razionali a seguito di un’analisi costi-benefici [si veda, Martinelli, Economia e società, Milano, 1986, p.6).
Oggi ci muoviamo in un paradigma molto diverso dal capitalismo fordista, di cui parlava Gramsci e su cui si era cimentato Marx. Se durante il fordismo, capitale, management e lavoro erano condannati a restare insieme perché erano tutti inchiodati al suolo della grande fabbrica, a partire dagli anni ’70 le elites economiche capitalistiche hanno “letteralmente” preso il volo, spostandosi ogni volta dove è più conveniente (cosa che la forza lavoro non può ovviamente fare).
Se infatti la società industriale poteva definirsi «solida» – ogni cosa infatti aveva un valore e doveva durare nel tempo, le relazioni sociali erano stabili, di lungo periodo e localizzate all’interno di uno spazio circoscritto (la casa, il quartiere, la città, la nazione) – la società post-industriale è liquida nella misura in cui ogni elemento della società è in perenne trasformazione, instabile, precario; le relazioni sociali perdono consistenza e valore, ogni legame è costruito o sciolto a seconda della necessità o della convenienza e, ancora più importante, viene a cadere quel binomio inscindibile tempo/spazio, pilastro della solidità precedente. Gli individui esistono in quanto consumatori di oggetti, servizi, saperi e relazioni umane.
Come fa notare Bauman [Modernità Liquida, p. 26], il risultato del processo di individualizzazione nella modernità liquida è che qualora un individuo si ammali, viene dato per scontato che la colpa sia del suo modo di vivere e non dell’ambiente in cui è inserito, così come se viene licenziato o rimane disoccupato, la colpa è sua che non si è dato abbastanza da fare per trovare un impiego, o è troppo pretenzioso nel non accettare lavori per i quali non ha studiato, e così via.
Cambiamento climatico? No, Capitalismo.
Questo breve e per nulla esauriente excursus semplicemente per sottolineare come il problema venga da lontano e la responsabilità politica e morale dei centinaia di milioni di euro di danni provocati negli ultimi due mesi, dall’Emilia Romagna fino al nubifragio di stanotte a Milano, e agli incendi e al caldo torrido in Sicilia e Sardegna, ha un’unica matrice: il sistema produttivo capitalistico. Non per niente, i suoi rappresentanti imprenditoriali e politici continuano a negare la gravità della situazione che stiamo vivendo come pianeta. Indigna la vernice degli attivisti di Ultima Generazione, ma non i morti per il caldo e per il “maltempo”. Si fa la conta dei morti del “comunismo”, ma nessuno aggiorna il contatore delle vittime della folle corsa al profitto che sta distruggendo questo pianeta.
Si bolla come “follia ideologica” la richiesta di invertire immediatamente la tendenza, facendo pagare i costi della “transizione ecologica” a chi macina profitti miliardari, ma nessuno mette minimamente in discussione un sistema ideologico, quello capitalistico nella sua variante “liquida”, che fino a 40 anni fa era residuale nella teoria economica.
D’altronde, il fulcro di questa nuova ideologia fu messo nero su bianco dal suo profeta Milton Friedman in quel famoso articolo del 13 settembre 1970, apparso sul New York Times (The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits), in cui affermava: “Esiste una e una soltanto responsabilità sociale dell’impresa: usare le sue risorse e impegnarsi in attività pensate per aumentare i profitti in una aperta e libera competizione senza inganni o frodi”.
Se l’unica responsabilità sociale dell’impresa è quella di aumentare i profitti per gli azionisti, è evidente come la negazione delle conseguenze di quella folle corsa al profitto sia essenziale per la sopravvivenza di tutto il sistema. E i danni poi chi li paga? Il tanto vituperato Stato, che non deve stare in economia ma deve sopperire ai fallimenti di questa condotta suicida.
Negare sempre
Se qualcuno crede che di fronte all’evidenza si placherà la campagna negazionista a reti ed edicole unificate, resterà deluso. Andrà avanti ancora quel che basta finché la frequenza di questi “eventi estremi” imporrà un cambio di strategia. Alcuni lo stanno già facendo, come Carlo Calenda: dalla negazione si passerà alla retorica del “è troppo tardi e inutile pensare di cambiare la tendenza“. Come se fosse un dato immutabile del destino.
La virata dalla negazione alla necessità di adattarsi a un clima del genere è funzionale alla solita volontà delle frazioni dominanti della classe dominante di mantenere intatti i propri privilegi (e profitti). L’economista Albert Hirschman ci mette in guardia da queste “Retoriche dell’intransigenza“, proprie di chi non vuole cambiare, né accollarsi il costo del cambiamento. Riconoscerle e contrastarle è un preciso dovere della “Sinistra”.
Anche perché, “l’ambientalismo, senza anticapitalismo, è solo giardinaggio“, recita un famoso slogan erroneamente attribuito a Chico Mendes. Fortunatamente, qualcuno ha iniziato a capirlo.