Il paradosso dell’eredità politica di Enrico Berlinguer

Quello che segue è un testo che ho scritto basandomi sulle argomentazioni esposte nel mio ultimo libro, “Per Enrico, Per Esempio. L’eredità politica di Enrico Berlinguer“. Doveva essere pubblicata in una raccolta di una nota casa editrice, che poi alla fine lo ha rifiutato, non avendo voluto io cedere per una cifra irrisoria “in cambio di notorietà” l’intervista esclusiva che Bianca Berlinguer mi ha concesso per il mio libro. Lo ripubblico qui.

per enrico per esempio

«Provare lutto per la morte di chi non abbiamo mai visto /
implica una parentela vitale fra l’anima loro / e la nostra /
Per uno sconosciuto / gli sconosciuti non piangono»
(Emily Dickinson, 1862)

«Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando». Si è spento così, davanti al suo popolo, lanciando un ultimo, sofferto, messaggio di speranza e fiducia. Lui, così schivo e riservato, per un beffardo scherzo del destino ha finito con l’offrire all’Italia e al mondo intero la morte più terribilmente pubblica che ci potesse essere. Qualcuno scrisse che era morto sul campo di battaglia, altri sul posto di lavoro: di certo vi è che Enrico Berlinguer si spese fino all’ultimo secondo della sua vita per un ideale. Per dirla alla Max Weber, era «il politico con la vocazione, cioè il vero Politico, quello che serve una causa».

Anche per questo Enrico Berlinguer continua a essere una delle figure politiche più amate e ricordate della storia d’Italia, anche da chi come me è nato dopo la sua morte.

Credo che quella «parentela vitale» cui fa riferimento Emily Dickinson nella sua poesia tra l’anima di Berlinguer e la nostra si fondi non solo sulla straordinaria attualità del suo pensiero politico, ma anche, e soprattutto, sulla potenza dirompente del suo esempio.

Lo scrisse bene Luigi Pintor nel ricordarlo dopo la «tragedia politica» della sua morte: «fece molto di più di una scelta politica come può essere intesa oggi, si identificò con una causa ideale e ne fece un modo d’essere»[1]. E in quel modo d’essere che caratterizzò Berlinguer spiccava una capacità particolare, ricordata con parole struggenti da Roberto Benigni: «il dono breve e discreto che il cielo aveva dato a Berlinguer era di unire parole ad uomini»[2].

Spesso noi «berlingueriani» del terzo millennio siamo accusati di essere nostalgici. Ma la nostra non è nostalgia, perché non si può avere nostalgia di qualcosa che non si è vissuto: prendere ad esempio una persona come Berlinguer che ha dedicato tutta la sua vita per un ideale e che è morto onorando fino in fondo quella scelta di vita è una necessità, non solo politica ma soprattutto morale.

Ci serve per poter continuare a credere che la Politica può essere una cosa bella e che può essere fatta dando tutto, senza chiedere in cambio nulla, ed essere felici lo stesso. Ecco, questa è l’essenza dello stile di Enrico Berlinguer, il suo lascito morale più importante.

La Storia sta dando ragione a Berlinguer

La Storia sta dando largamente ragione a Berlinguer e torto a chi ha pensato fosse saggio accoccolarsi nell’alveo del neoliberismo in maniera acritica. Lo dimostrano le crescenti diseguaglianze nel mondo e la diffusione in tutto l’Occidente di nuovi fascismi e avventure reazionarie. La sua idea di società socialista che rispettasse tutte le libertà, tranne quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani, sarà stata anche imperfetta, ma almeno era un’idea di società che chi è venuto dopo di lui non ha saputo più immaginare.

Ecco perché Enrico Berlinguer è ancora così popolare, anche tra noi nati dopo la sua morte. Quando parlava non cercava di farti la lezioncina, come fanno i politici di oggi. Spiegava le sue ragioni, non parlava complicato, si capiva subito tutto quello che diceva. Eppure, diceva cose pesanti che facevano riflettere, che lasciavano un segno, tanto che ne parliamo ancora oggi.

Quando Berlinguer parlava eri felice perché sentivi di far parte di una comunità che il mondo lo voleva cambiare per davvero. Oggi questo non c’è più. E se non c’è più, non è stato per un accidente della Storia, ma per colpa di chi è venuto dopo di lui e ha dissipato un patrimonio politico, culturale e ideale senza pari in Europa, come ricordò anche uno storico del calibro di Hobsbawm[3].

La “schizofrenia politica” dei figli politici di Berlinguer

D’altronde, l’eredità politica di Enrico Berlinguer è sicuramente stata un’eredità “difficile”, oserei dire anche pesante sotto certi aspetti. Non deve essere stato facile per chi è venuto dopo di lui stare sopra le spalle di un gigante così amato non solo dal popolo comunista ma anche da chi comunista non era.

Nonostante la complessità della sfida, trovo però surreale quella «schizofrenia politica» che negli anni ha caratterizzato leader e gruppi dirigenti, i quali senza soluzione di continuità sono passati dall’agiografia alla critica totale, compiendo spesso il percorso inverso quando conveniva politicamente[4].

L’unico risultato di questo atteggiamento ambiguo e politicamente suicida è di non aver mai fatto veramente i conti con quell’eredità, preferendo di volta in volta piegare il pensiero politico di Berlinguer a contingenze storiche e interessi politici di breve periodo ma soprattutto di scarso respiro.

Per carità, tutto e tutti possono essere messi in discussione. Berlinguer poi avrebbe odiato essere ridotto a un santino intoccabile. Ma che la sua messa in discussione sia stata strumentale e fondata su una realtà mistificata e per nulla aderente ai fatti lo dimostra il calibro delle persone estranee o addirittura ostili alla tradizione comunista che sono scese in campo negli anni per difenderne la memoria ogni qual volta gli attacchi passavano il segno, da Giorgio Bocca a Indro Montanelli, da Piero Ottone a Eugenio Scalfari, fino a Cesare Romiti.

Curioso destino quello dell’ex-Segretario: contrastato in ogni modo possibile dagli avversari politici da vivo, difeso da morto per onestà intellettuale dagli avversari più leali perché gran parte dei suoi ex-compagni di partito e dei presunti eredi hanno tentato di demolirne il mito e in alcuni casi cancellarne anche la memoria[5].

Salvo poi appunto recuperarne l’immagine (solo quella) per far digerire posizioni e linee politiche contraddittorie a un popolo che a furia di svolte a destra e prese in giro ha finito per rifugiarsi in larga parte nel non voto.

La Sinistra di oggi non fa più paura

A scorrere tutte insieme le posizioni assunte su di lui in questi quarant’anni da parte di quello che era negli anni ’80 il giovane gruppo dirigente berlingueriano, sembra quasi che prendere le distanze dal Segretario del Pci fosse un passaggio obbligato. Come se servisse ad accreditarsi presso determinati salotti ostili alla Sinistra, a rassicurare certi interlocutori mostrando loro che non erano più, e in alcuni casi non erano mai stati, comunisti.

Un obiettivo riuscito, se pensiamo che persino Licio Gelli commentò compiaciuto che con l’attuale Sinistra la P2 non sarebbe dovuta nemmeno nascere, dato che non faceva più paura a nessuno[6]. A riprova del fatto che pensare di tagliare le radici per rifiorire meglio è stato davvero «il gesto suicida di un idiota», come ricordò lo stesso Berlinguer una volta[7].

Il paradosso dell’eredità politica di Enrico Berlinguer

Sta qui, credo, il grande paradosso della sua eredità politica: tanto invocata da un popolo smarrito, che del Segretario rimpiange serietà, onesta e spessore politico e culturale, quanto banalizzata e temuta da chi quel popolo aveva e ha il dovere di rappresentarlo, per ragioni anzitutto storiche e morali.

Vorrei fosse chiaro che non si tratta di rimpiangere una presunta «età dell’oro» dove tutto andava bene, perché così non è stato e nemmeno sarebbe stato se Berlinguer fosse sopravvissuto al comizio di Padova.

Si tratta invece di recuperare quel «modo d’essere», quell’habitus di classe per dirla alla Pierre Bourdieu[8], frutto di un universo ideale e di un’idea di mondo che dava speranza a milioni di persone e creava una forte identificazione politica e sentimentale tra il leader e il suo popolo.

Un’identificazione che nel caso del Pci di Berlinguer si era sviluppata anzitutto perché il Segretario condivideva con le persone che ambiva a rappresentare la stessa condizione di esistenza, abbracciata quando si era iscritto al partito nel 1943, rinunciando agli agi e alle comodità di cui avrebbe goduto mantenendo quella familiare.

Un leader credibile

Insomma, Berlinguer poteva parlare di diritti dei lavoratori, di questione morale, di solidarietà tra i popoli e di pace perché aveva la credibilità politica e morale per farlo. E lo faceva da una posizione di potere, quella del Segretario del più grande partito comunista d’Occidente, ma non da una «condizione esistenziale di potere», cioè non da uomo politico che cercava il potere per il potere.

Perché il fine ultimo della sua lotta era la realizzazione di quei valori ideali – pace, giustizia, eguaglianza, lavoro, sapere, solidarietà – condivisi da tutti i comunisti italiani. Non bisogna mai dimenticare che se c’è stato Enrico Berlinguer che ha «dato la sua vita» per quegli ideali, è anche e soprattutto perché ci sono stati i Dante Franceschini, gli Alberto Menichelli e i Mario Benedetti, che egualmente hanno dato tutto nella loro vita, senza chiedere mai in cambio nulla.

Tutti loro ci hanno insegnato col loro esempio che la politica è passione, coraggio, idee, ma non è niente se non è fatta per gli altri. Se vogliamo onorarne la memoria e ridare senso alla Sinistra in Italia e in Europa, questo non dobbiamo dimenticarcelo mai.

Note

[1] Luigi Pintor, «Non fraintendetemi ma avrei voluto essere su quel palco», l’Unità, martedì 12 giugno 1984, p. 8.

[2] Roberto Benigni, «Caro Enrico, eri così leggero quando ti presi in braccio», Ibidem.

[3] Eric J. Hobsbawm, «Lascia ai successori una base solida per il futuro», Ivi, p. 9. Ora disponibile su enricoberlinguer.it.

[4] Ne ho parlato in maniera approfondita nel capitolo “L’eredità dissipata” del libro «Per Enrico, per Esempio. L’eredità politica di Enrico Berlinguer».

[5] Fortunatamente con qualche eccezione di peso, come quella di Emanuele Macaluso, Aldo Tortorella, Luciano Barca e pochi altri.

[6] Lo dichiarò in un’intervista a Klaus Davi nel 2008, disponibile su YouTube sul canale del giornalista, dal minuto 5:00: https://youtu.be/5KkcLZrP8dE

[7] La citazione si trova all’interno di un articolo, pubblicato su Rinascita il 6 dicembre 1982, intitolato «Partito e società nella realtà degli anni ’80», ora nel libro Casa per Casa, Strada per Strada, Milano, Zolfo editore, p. 108 e ss.

[8] Per approfondire il concetto di habitus di classe, si veda in particolare Bourdieu, Pierre (2001). La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino. (ed. or. 1979), p. 105 e ss.