Dunque, 30 anni fa a Palermo venivano uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Non giriamoci troppo attorno: il mandante di quell’omicidio fu la politica. O meglio, fu una corrente della Democrazia Cristiana il cui capo 20 anni dopo sarebbe stato prescritto per mafia. E che ancora oggi è lodato e ossequiato in Senato, con tutti gli onori che si confanno alla vera scatola nera della democrazia italiana dal dopoguerra ad oggi: purtroppo, dato che il soggetto rimane in silenzio, forse mai nulla riusciremo a sapere di quello che lui sa.
Già solo questo dovrebbe portare le alte cariche dello Stato, quello Stato che Carlo Alberto Dalla Chiesa ha servito con onestà, fermezza, intransigenza e coerenza morale, a rimanere in silenzio. E invece no, è una vetrina troppo allettante e del resto la vergogna non sanno nemmeno dove sia domiciliata (è latitante, come i mafiosi che hanno sparato), quindi si gettano senza troppo entusiasmo e calore sulla tragedia umana e usano il sangue dei giusti per riempire il proprio bianco e inopportuno manifesto elettorale.
Li conosciamo, sono fatti così. L’ipocrisia è connaturata all’uomo politico medio italiano: servile, forte con i deboli, debole con i forti, per nulla coerente, insegue il favore delle masse e soddisfa gli interessi di pochi. Poi si domandano del perché la politica sia così disprezzata in Italia e i giovani sognino Pertini e Berlinguer e stanno a casa se alle elezioni si presentano Vendola, Renzi e Bersani.
Guido Dorso, politico meridionale antifascista, da inascoltato profeta, già sosteneva agli inizi degli anni ’40 che l’homo politicus che stava emergendo era sempre «lo stesso tipo di politicante caratterizzato dal suo profondo disprezzo per la massa, sostanzialmente privo di vera cultura politica e gonfio di imparaticci, un tempo di filosofia positivistica ora di filosofia crociana […] specializzato nel far carriera politica, nel camuffarsi e trasformarsi continuamente, e soprattutto perché eccelle nell’assaltare le diligenze governative.»
Sono passati 60 anni, ma non è cambiato nulla. Tutti quelli che sono morti per questo Stato sono stati in vita disprezzati, osteggiati, insultati, ostacolati, fino alla tragedia finale, che ha permesso a questo o a quello di intestarsene la memoria e campare di rendita.
Gli eroi, però, sono scomodi. Sono simboli troppo pericolosi, soprattutto poi se vengono seguiti dai giovani: e allora vai con le diffamazioni a tutto spiano, le recriminazioni, le ingiuste accuse. E finisce così che Pertini in realtà era filo-sovietico negli anni ’50 (lo erano tutti), Berlinguer un bastardo senza morale che ha distrutto la Sinistra italiana, Pio La Torre andava a donne e Carlo Alberto Dalla Chiesa torturava i comunisti nelle caserme per estorcere confessioni. Tutte balle, tutte calunnie. Ma la calunnia è un venticello e i mandanti sanno di poterlo sfruttare appieno, perché in fin dei conti l’italiano medio è colmo di risentimento e di pregiudizio: è invidioso persino della morte altrui, vorrebbe fare l’eroe, ma ha a malapena il coraggio di chiedere il favore al politicante di turno che vota senza batter ciglio.
Ha detto Nando Dalla Chiesa stamattina: “Assicuriamo ai cittadini i loro elementari diritti, impediamo che vengano elargiti loro sotto forma di favori dalla mafia. E facciamo sì che le istituzioni siano sempre più importanti di una tessera di partito. Sembra poco ma è una rivoluzione.“
Eccola la vera rivoluzione. E per farla, ne scriveva già Piero Calamandrei, a proposito di buona politica, «non c’è bisogno di grandi uomini, ma basta che ci siano persone oneste, che sappiano fare modestamente il loro mestiere. Sono necessarie: la buona fede, la serietà e l’impegno morale. In politica, la sincerità e la coerenza, che a prima vista possono sembrare ingenuità, finiscono alla lunga con l’essere un buon affare.»
Il buon affare, Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo aveva fatto. A 30 anni dalla sua morte, però, in pochi hanno avuto il coraggio di fare altrettanto.