Il vertice di sabato scorso fra Marchionne, Monti e i ministri Passera, Fornero e Barca durato più di cinque ore, si è concluso senza che siano state prese delle decisioni degne di nota. Dal comunicato di Palazzo Chigi, infatti, è emerso che “il Governo e la Fiat hanno stabilito di impegnarsi per assicurare nelle prossime settimane un lavoro congiunto, utile a determinare requisiti e condizioni per il rafforzamento della capacità competitiva dell’azienda”. E’ chiaro che si tratta di una dichiarazione ambigua e poco concreta, a malapena sufficiente a dimostrare che il governo ha un ruolo in questa vicenda.
“Chi gestisce la Fiat non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia”. Queste le affermazioni di Monti del 17 marzo scorso, in occasione di una conferenza del Centro Studi della Confindustria. Sembra che Monti sia combattuto fra le posizioni liberiste (a lui tanto care) e quelle “interventiste” (se così possiamo chiamarle) che, controvoglia, è costretto a considerare a causa della sua attuale posizione. D’altronde, si sa, questo governo di tecnici non ha problemi nell’ostentare un’ eccessiva determinazione per quel che concerne le decisioni che vedono protagonisti i precari, gli esodati e i pensionati. Quando, invece, si tratta di lobby e gruppi di potere (come nel caso Fiat) i membri del governo risultano timorosi, limitandosi a “invitare” tali corporazioni (ultimi i medici toccati dal depotenziato decreto Balduzzi) a “collaborare”.
Marchionne, dal canto suo, non fa altro che accusare i governi italiani di non concedere finanziamenti e agevolazioni fiscali al settore auto (al contrario di quello brasiliano o serbo) pur sapendo che attualmente il governo difficilmente elargirà aiuti, a causa dei vincoli imposti dell’Unione Europea. Secondo il manager italo-canadese, gli ultimi finanziamenti sarebbero giunti negli anni novanta per lo stabilimento di Melfi. Cambia, quindi, la linea Marchionne che qualche anno fa affermava di non volere più alcun tipo di aiuto dallo Stato.
L’atteggiamento di Marchionne è disfattista e incosciente. Addossa tutta la colpa dei suoi insuccessi ai governi e alla politica economica in generale, come se lui, l’imprenditore col pullover tanto osannato da buona parte della sinistra italiana, non avesse alcuna responsabilità. Di chi è la colpa se tra il 2007 e il 2012 la domanda interna è letterlamente crollata? Perché Fabbrica Italia, il piano di investimenti da 20 miliardi di euro annunciato dallo stesso Marchionne nell’aprile 2010, non è mai stato avviato, nonostante gli sforzi che gli operai hanno sostenuto? Perché la Fiat non produce nuovi modelli e non innova? Perché la Fiat non ha ancora un piano industriale come tutte le altre case automobilistiche d’Europa?
Il referendum del gennaio 2011 a Mirafiori ha visto la maggior parte degli operai votare contro le proposte di Marchionne, ma furono decisivi i “sì” degli impiegati. La rottura dei sindacati non ha fatto altro che rafforzare l’amministratore delegato. L’intesa di Mirafiori (che la Fiom non ha firmato) ha limitato il diritto di sciopero, ha stabilito la possibilità di fare gli straordinari senza la contrattazione e ha diminuito il tempo destinato alla pausa. Dunque, sono stati smantellati i diritti dei lavoratori. In questi due anni poi, la Fiat non ha esitato un attimo nel licenziare gli operai di Pomigliano con la tessera Fiom, violando la Costituzione.
Alcuni esponenti del Pd fin dagli inizi, si sono dimostrati entusiasti dell’amministratore delegato, come se fosse un vero e proprio salvatore. In questi giorni i pareri sono cambiati, forse perché ci si è accorti che Marchionne non è quel grande innovatore che tutti pensavano fosse. L’equazione modernità uguale meno diritti è stata “sposata”dai dirigenti (Fassino e Ichino per citare due nomi) del centro-sinistra. Per anni si è pensato (e lo si pensa ancora) che per essere competitivi sul mercato bisogna rinunciare ad alcuni diritti fondamentali. E’ come se fossimo costretti ad accettare passivamente questo ricatto in nome di una produttività sempre più cinica. Questo ragionamento è ovviamente falso, ma la sinistra italiana (o almeno una parte di essa) ha dovuto aspettare che Marchionne minacciasse la chiusura degli stabilimenti italiani per accorgersene.