Nel 1997 Larson e Witham pubblicarono su Nature un piccolo studio sulla percentuale di credenti nel mondo scientifico. Non c’è nessun riferimento al cattolicesimo o altre religioni in particolare, ma a una generica dichiarazione di fede nell’esistenza di dio e nell’immortalità dell’anima. Rispetto a uno studio simile compiuto da Leuba nel 1916 (The Belief in God and Immortality, Sherman, French & Co) le percentuali di credenti non sembrano essere cambiate di molto. Anche se questioni così aperte a ogni possibile interpretazione (qualcuno chiese giustamente cosa si intendesse con “dio”) non sarebbero da prendere come reali dati statistici, vorrei partire da qui per tentare di spiegare come scienza e fede (e talvolta religione) possano convivere in un’unica persona.
Quando Napoleone chiese a Laplace come mai nella sua Meccanica Celeste non si menzionasse mai Dio il matematico rispose che per le sue teorie non aveva bisogna di questa particolare ipotesi.
Il premio Nobel Carlo Rubbia è un convinto credente (e cattolico). Pare che la sua fede gli derivi in gran parte dal non poter spiegare come sia nata la vita sul nostro pianeta.
Partiamo da due presupposti:
1) La scienza non è fede. Uno scienziato non crede a Laplace piuttosto che a Rubbia o viceversa. Uno scienziato legge i lavori dei due e li considera, in base all’esperienza empirica, plausibili o meno. La loro fede / non fede è un fatto personale. Se Laplace non credeva in Dio non significa che Dio non esista e l’inverso vale per Rubbia.
2) La fede non è scienza. La fede procede per dogmi e si basa sul principio di autorità. Se Buddha dice che esiste il Nirvana nessuno gli chiede di dimostrarlo con una prova sperimentale.
Chiarito questo possiamo dire che credere in dio o in un gruppo di dei è un fatto che esula dall’esperienza “fisica” del mondo e appartiene alla sfera emotiva e personale, come spiegò Laplace con quella battuta. Si può obbiettare che i medici sono tendenzialmente più credenti degli scienziati puri. Questo perché a mio parere hanno a che fare con una scienza che richiede risposte per noi molto complesse ed è molto meno “esatta” rispetto, ad esempio, alla matematica. Se una guarigione non è comprensibile con gli strumenti attualmente a disposizione del medico le possibili reazioni sono due: la prima è “esiste un dio e/o un’anima” la seconda è “non lo so ancora spiegare”. Ma la risposta corretta sarebbe: “non posso dimostrare come e perché”, infatti se non è detto che non esista un dio non è nemmeno vero che tutto può essere spiegato o verrà spiegato in futuro. Di solito lo scienziato (o l’uomo assetato di conoscenza) cerca di perseguire la seconda strada e non di fermarsi alla prima.
Bisogna fare poi un’ulteriore distinzione. Credere in un ente superiore non va d’accordo con la scienza quando la confuta con dogmi e non fatti. Il creazionismo ad esempio pretende di imporre contro ogni evidenza (fisica, geologica, antropologica, biologica, ecc…) che la Terra abbia circa 6000 anni e che le specie viventi esistano così come sono ora da sempre. Anche il concetto di naturale/innaturale è scientificamente privo di senso. Generalmente il fedele considera naturale ciò che è ed è stato creato da dio e innaturale ogni deviazione umana dal progetto divino. L’omosessualità per i più ortodossi tra cristiani, ebrei, musulmani è un’aberrazione, fondamentalmente perché la fisiologia umana (voluta da dio) ci suggerisce che la donna sia fatta per accoppiarsi con l’uomo e non con un’altra donna: si tratta però di un dogma, e vi spiego perché.
La natura non è un soggetto fermo e non è perfetta, anzi, l’evoluzione è totalmente casuale. Alcuni individui appartenenti alle popolazioni del bacino del mediterraneo attualmente presentano globuli rossi più piccoli e più numerosi del normale. Questo difetto genetico si è trasmesso e diffuso come sistema di difesa dalla malaria, ma in alcuni casi porta a una malattia terribile, la talassemia. I concetti di “perfezione”, “migliore”, “normalità” o “natura” non hanno lo stesso significato per la scienza e la religione. Dire che l’omosessualità, come la talassemia o un particolare colore di capelli è contro natura ha senso solo se si accetta il dogma che la natura sia immutabile e sia “cosa buona” (cfr. Libro della Genesi).
Vuol dire che uno scienziato non può credere in dio?
Lo scienziato è un essere umano e può decidere di credere a molte cose, compreso dio. Io sono un chimico e sono atea. Però credo che fare le scale sia fare sport e che l’aranciata sia la bevanda più buona del mondo. Non penso che il mio lavoro e la mia educazione scientifica vadano sempre a braccetto col mio ateismo. Penso però che sia possibile che la conoscenza della struttura della materia e di come atomi e molecole possano combinarsi fra loro mi porti a pensarla in maniera differente sulla nascita della vita rispetto al prof. Rubbia. E la mia risposta non è dio. Ma non posso provarlo empiricamente, è solo la mia risposta (in questo paragrafo “io credo” e “io penso” non sono usati come sinonimi).
Mi credo allora meglio di Rubbia? O di Cartesio, Pascal, Faraday?
No. Semplicemente il fatto di non poter provare nessuna delle due convinzioni ci pone tutti sullo stesso piano. Se parlaste con Rubbia di cucina gli conferireste autorità anche in quello?
Per questi motivi voglio dirvi due cose.
Se prendete gocce omeopatiche o fate un viaggio a Lourdes e guarite non parlate di scienza. La fede e la scienza sono cose molto serie. Siete liberi di avere fede in quello che volete, ma non siete liberi di confondere i dogmi con l’esperienza empirica. Sono due linguaggi differenti, è come se un cinese e un inglese tentassero di dialogare usando ciascuno la propria lingua. Non funziona.
La fede è un fatto personale. Nessuno, in quest’epoca, ha il diritto di imporre le proprie convinzioni personali al resto del mondo. Così come non avete ragione per vivere la scienza come un’imposizione. Siete liberi di accettare per voi stessi ciò che più vi piace, ma non di pretendere che piaccia anche agli altri. Siete liberi di credere che l’omosessualità sia contro natura, che la Terra sia piatta o che i prosciutti crescano sugli alberi, ma non siete liberi di pretendere che questi siano fatti.
Anche la libertà è una cosa molto seria, cercate di farne buon uso.
Da credente (e da non-scienziato: lavoro nell’umanistica) sono d’accordo con l’autrice praticamente fino all’ultima virgola.
Credo che la lezione di Kant sia a tutt’oggi insuperata, e sia la base di ogni convivenza democratica basata sulla tolleranza reciproca: credere in Dio è frutto soltanto di una scelta personale, o di un “sentire” interiore, e non è né può essere il frutto di nessuna dimostrazione scientifica. Ovviamente.
Solo una sfumatura nell’articolo mi lascia un po’ perplesso. Si dice che Rubbia crede in Dio perché non sa spiegarsi l’origine della vita, o che un medico potrebbe credere in Dio perché sa di non poter fare previsioni certe di fronte ad interventi terapeutici.
Fatto salvo che ognuno è libero di giungere alla credenza o all’ateismo attraverso le vie che più gli piacciono, io tendo a portare l’aspetto della fede su un piano molto più “esperienziale”, “etico”, se vogliamo (ma usando la parola con molta attenzione) “sentimentale”.
In altre parole, io non credo in un dio perché ci sono problemi scientifici cui non so dare risposta. Per un sacco di ragioni: primo perché questi problemi scientifici irrisolti o forse irrisolvibili sono moltissimi, e non mi interessa proprio di essere circondato da presunte “prove” dell’esistenza di Dio. Secondo, perché di fronte a un problema irrisolto, io normalmente dico: “Forse tra 50-100-200 anni la scienza troverà una risposta”. Terzo, perché pensare che ci sia “bisogno” di un dio per risolvere i miei problemi o i miei dubbi spalancherebbe la porta all’obiezione che questo misterioso “qualcosa” chiamato dio sia il frutto della mia immaginazione, inventato strumentalmente per illudermi che l’universo sia un po’ più ordinato di quello che sembri.
Dal punto di vista della razionalità pura, probabilmente io sono ateo tanto quanto l’autrice (forse di più?). Ma siamo tutti d’accordo con Wittgenstein, penso, nel dire che le affermazioni razionali-scientifiche sono una piccola parte della nostra esperienza umana.