Giovedì 28 novembre, alle 17.42, dopo che il Senato della Repubblica ha respinto i nove ordini del giorno presentati da Forza Italia, Silvio Berlusconi è decaduto dalla carica di senatore. Diciamoci la verità: nessuno di noi si è stracciato le vesti, anzi, in molti si saranno concessi un bicchiere di quella bottiglia che tenevano in fresco dal ’94. E’ innegabile che la decadenza abbia dei risvolti positivi, per i suoi avversari politici, in primis la delegittimazione che per la prima volta giunge per via politica, non giudiziaria, ma anche (e scusate se è poco) il fatto che la maggioranza attuale, senza Forza Italia, non ha i numeri per andare a modificare la Costituzione.
Ma (c’è sempre un “ma”, in questo caso anche più d’uno) davvero siamo sicuri che questa sia la fine di Berlusconi e del berlusconismo? La domanda è retorica e la risposta è chiaramente “No!”. Lasciando un momento da parte l’ormai assodata capacità del leader del centrodestra di risollevarsi anche dalle situazioni peggiori (spesso con l’involontaria complicità di un centrosinistra autolesionista), concentriamoci sui motivi per cui i fatti accaduti il 28 novembre non segnano un cambio di rotta decisivo e definitivo della scena politica italiana:
1. A Berlusconi, di stare in Senato, non importa nulla: come hanno già fatto notare pressoché tutti gli osservatori, molto probabilmente dal 9 dicembre tutti e tre i leader delle principali forze politiche italiane saranno fuori dal Parlamento (Renzi per il PD, Grillo per il M5S e lo stesso Berlusconi). Si aggiunga a questo che, nel corso di questa legislatura, l’ex senatore Berlusconi ha partecipato ad una sola votazione, quella del “Sì-ma-no-forse-vabbé, dai, per stavolta” relativa alla fiducia al governo Letta del 2 ottobre. Da questo punto di vista, l’unico lato negativo della decadenza, per Berlusconi stesso, sta nell’onta subita, nella “macchia” di essere stato cacciato ufficialmente dalle istituzioni, che comunque non è poco.
2. Propaganda e vittimismo: da anni, questa è l’arma preferita dell’ex premier. Ha usato la propria situazione giudiziaria a scopi politici persino quando appariva contrario alla logica (e l’apoteosi, il “capolavoro”, resta senz’altro aver fatto passare a maggioranza in Parlamento l’idea che una ragazza marocchina di diciassette anni fosse la nipote del presidente egiziano), figuriamoci ora, che per mesi potrà calcare la mano sulla legge Severino applicata retroattivamente, sui giudici cancro della democrazia, sui cattivoni comunisti che voglio sconfiggerlo per via giudiziaria e sulle mille altre parole d’ordine che da due decenni ci ammorbano in continuazione. Tutto questo nel clima che più si addice ad un animale politico come lui, quello della campagna elettorale permanente, con l’evidente vantaggio di trovarsi all’opposizione e poter attaccare un governo non certo amato (a ragione o a torto, non è questo il punto).
3. Il berlusconismo ieri, oggi, domani, sempre: uso il termine “berlusconismo” in un’accezione ampia ed ambivalente. Quest’espressione viene adoperata per indicare il retroterra “culturale” che il patron di Mediaset ha creato nei suoi vent’anni di egemonia nella vita pubblica del Belpaese, e “berlusconiani” sono definiti coloro che l’hanno votato e lo votano senza “se” e senza “ma”, ad ogni consultazione elettorale.
A mio modestissimo parere, però, quest’ampia categoria che comprende (ahinoi!) milioni di italiani può essere scorporata in due: da una parte ci sono i berlusconiani in senso stretto, le Santanché, i Bondi, le Carfagna o, uscendo dal “palazzo”, le signore che piangono ai suoi comizi e gli uomini che gli baciano la mano come fosse il Papa, quelli che, in sostanza, ripeterebbero come un disco rotto “Silvio Berlusconi è un perseguitato!” pure se gli facessero una multa per parcheggio in divieto di sosta. Questi personaggi nascono e muoiono nell’alveo della stagione berlusconiana, potranno forse riciclarsi come servi di un nuovo padrone, ma sono più una seccatura che un problema politico e culturale.
Dall’altra parte, invece, ci sono gli altri, i berlusconiani in senso lato, quelli che non credono in “Santo Silvio martire da Arcore”, ma che “comunque, l’unico politico che voterei è sempre Berlusconi”. Sono quelli che non sostengono l’innocenza di Berlusconi da qualsiasi reato, ma che si spingono oltre, fino a dichiarare che “fa bene ad evadere le tasse, i politici ci rubano tutto” o anche che “quelli che lo attaccano perché va con tante donne sono solo invidiosi perché nessuna va con loro, qualsiasi uomo si comporterebbe come lui” (concludendo solitamente con un elegante “tranne i froci”, giusto per non farsi mancare una nota omofoba).
Ecco, a queste persone, e sono la maggioranza del suo elettorato, il termine “berlusconismo” sta stretto. Silvio Berlusconi non ha creato questa sottocultura trash, fatta di clientelismo, consumismo sfrenato e
lussuriosa indecenza, ma è stato abilissimo a farla emergere, grazie soprattutto all’opera delle sue televisioni, dando al popolino ciò che voleva avere, dicendogli: “Non devi vergognarti di questi tuoi desideri proibiti, li abbiamo tutti, sono gli altri, i moralisti repressi, ad avere torto!”.
Queste istanze di vuoto individualismo che il berlusconismo ha elevato a principi di vita, in realtà, esistono in Italia da tempo immemore, forse da sempre, ma è soltanto negli anni ’80 che si sono fatte strada nella società italiana, e a sdoganarli in politica, non poteva essere altrimenti, ci ha pensato il dominus di quel periodo, il solito Bettino Craxi (forse intendono proprio questo quando dicono che è così moderno…).
Il berlusconismo, in realtà, altro non è che la forma plebiscitaria del craxismo di quegli anni, e la grande vittoria dell’imprenditore brianzolo è di aver reso egemone quella che prima era solo una posizione minoritaria. E questa, in fondo, è la vera decadenza.