di Federico Varese, professore di Criminologia all’Università di Oxford, editoriale su La Stampa del 18/02/2014
«Scrivere Gomorra mi ha rovinato la vita. A volte mi domando se finirò in un ospedale psichiatrico. Sul serio. Già adesso ho bisogno di psicofarmaci per tirare avanti». Roberto Saviano affida ad un intervista per El País il suo travaglio, e aggiunge: «Non valeva la pena giocarmi tutto per la ricerca della verità». I detrattori noteranno che questa confessione coincide con l’uscita in spagnolo di Zero Zero Zero, mentre gli ammiratori rinnoveranno la loro facile solidarietà virtuale, con migliaia di messaggi su Facebook e Twitter.
E ancora una volta questo paese avrà perso un’occasione per riflettere seriamente su come il sistema mediatico-politico costruisce e distrugge i suoi idoli.
Chi scrive va annoverato tra gli ammiratori di Saviano. Nel 2006, Saviano pubblicò un libro imperfetto ma illuminante, che parlava ad un pubblico che io e i miei colleghi non avremmo mai raggiunto. L’autore non svelava episodi ignoti, ma con le armi della letteratura raccontava la storia di un giovane che cresce in un mondo con i valori rovesciati, dove il lavoro, il merito, la giustizia e l’amore lasciano il passo al sopruso, alla violenza, ai rapporti mercenari e alla morte. Pur avendo un’esperienza limitata del mondo, Saviano era l’erede di una grande cultura minoritaria in Italia, che annoverava i classici del Gulag sovietico (Evgeniya Ginzburg, Shalamov e Herling), il romanzo civile di Albert Camus e George Orwell, e la tradizione del non-fiction novel inaugurata da Truman Capote. La sua formazione (come la mia) doveva molto all’insegnamento di Goffredo Fofi e alla frequentazione dei giovani riuniti intorno alle riviste Linea d’Ombra e Lo Straniero. Finalmente era comparso sulla scena letteraria uno scrittore libero.
Poi è successo qualcosa. Le minacce di morte da parte della Camorra e il successo mondiale del libro hanno spinto una fetta consistente del sistema politico-mediatico italiano a fare di Saviano un’icona. Solo un paese che non ha intenzione di combattere seriamente la mafia si inventa questi miti. Ricordo ancora quando pareva che lo scrittore dovesse diventare il leader del partito democratico e ogni politico di sinistra si faceva fotografare con lui. Chi, come me, ha osservato questa trasformazione da lontano non poteva non notare la superficialità delle classi dirigenti italiane. Un ceto politico delegittimato, autoreferenziale e non disposto a farsi da parte investiva Saviano di un ruolo salvifico, buono per una o due elezioni. In quegli anni si è allestito un circo mediatico dove la rappresentazione del Male era troppo superficiale per produrre una trasformazione duratura. Una volta finito lo spettacolo, non è mai iniziato il duro e ingrato lavoro sul campo. Del resto, quel protagonista non poteva avere tutte le risposte e tutti gli strumenti. L’autore di Gomorra è diventato così una celebrity, vittima di quel vizio tutto italiano di non fare mai il proprio mestiere fino in fondo. Oggi non sappiamo più se Roberto sia uno scrittore, un presentatore televisivo, un politico in pectore, un giornalista oppure la vittima della mafia.
«Perché scrivo?» si chiedeva George Orwell nel 1947. Scrivo per scoprire la verità e per diventare famoso, fu la sua risposta. Chi mette nero su bianco i propri pensieri pensa di aver commesso un atto eroico, che cambierà il mondo. Con gli anni ci si accorge che quella fama tanto agognata non arriva oppure dura solo lo spazio di una stagione letteraria. In più, la palingenesi universale tarda a materializzarsi. L’unica salvezza è sapere di aver fatto bene il proprio mestiere. Senza dubbio, quando si racconta il mondo nella sua complessità, bisogna proteggersi, come ci ricorda oggi Saviano dalle colonne de El País. Ma le forze da cui si deve guardare lo scrittore napoletano sono anche le distrazioni e la superficialità dello star system di casa nostra. Questo, a mio parere, può rovinare una vita.