Giovedì ho visto il film di Veltroni su Berlinguer. E mi è piaciuto. E’ indubbiamente un bel film, fatto con rispetto, cosa che, visti i tempi che corrono, con gente pronta a intestarsi la memoria di Enrico senza averne alcun requisito anzitutto morale, è già di per sé una grande cosa.
Chi si aspettava una “veltronata”, infarcita di buonismo (la principale accusa che rivolgevano al Veltroni politico), rimarrà deluso: il Veltroni regista, anzi, ricorda Berlinguer nudo e crudo, senza smussare alcun angolo e restituendoci un’immagine fedele all’originale. E sferra anche due plateali attacchi al prescritto per concorso esterno in associazione mafiosa Giulio Andreotti e al condannato a 10 anni per corruzione morto latitante Bettino Craxi. Cosa, anche questa, niente affatto scontata, sempre considerati i tempi che corrono.
Non ho allagato il cinema con le mie lacrime, come pare abbia fatto qualcuno all’anteprima per la stampa martedì scorso, eppure, su consiglio del regista, avevo tenuto pronto il fazzoletto, che ho usato tre volte: subito, all’inizio, quando un’odierna piazza San Giovanni in bianco e nero si trasforma in quell’oceano di bandiere rosse che invase Roma il 13 giugno di 30 anni fa, sotto le note di Danilo Rea; quando ha parlato Silvio Finesso, l’operaio della Galileo di Padova che incontrò per ultimo Berlinguer, prima che tutti andassero al comizio; infine, com’era prevedibile, quando compaiono le immagini dell’ultimo comizio a Padova (quelle che mi fecero diventare, a 18 anni, “berlingueriano”).
Ho storto il naso, invece, di fronte alle testimonianze di Signorile e di Forlani: non devo essere stato l’unico, visto che in sala nessuno ha riservato loro mezzo applauso quando sono comparsi nei titoli di coda (mentre standing ovation fu per Napolitano, ma era scontata, per Finesso, Menichelli e per Ingrao). Ma complessivamente il film è una piccola perla, non solo per gli inediti di repertorio, ma anche per l’evidente passione messa nel progetto (si ricredano gli stolti: non l’ha fatto per resuscitare se stesso). E se lo dico io, che su Berlinguer sono maniacale e basta andare un centimetro oltre il seminato che faccio tuonare i cannoni a palle incatenate, potete fidarvi: non vi manderei mai a vedere una schifezza, anzi.
C’è un unico effetto collaterale in questo film, chiaramente non previsto: volendo fare un “film per diciottenni”, Veltroni ha voluto aprire con una serie di interviste a quelli della mia generazione, quella nata dopo il crollo del Muro di Berlino, dalle cui risposte imbarazzanti dimostra implicitamente la necessità del suo lavoro cinematografico. E fin qui, nulla da dire. Ma che i giornali dipingano un’intera generazione come una mandria di inconcludenti e ignoranti senza il vizio della memoria, questo, francamente, non lo accetto: se oggi esiste un sito web che sta per sfiorare i 400mila utenti, se le sue idee sono state così diffuse e se oggi Berlinguer è sulla bocca di tutti, è merito di un gruppo di ventenni che quando hanno iniziato venivano bellamente sbeffeggiati da certi giovani e meno giovani che ora versano lacrime di ipocrisia solo perché ricorrono i 30 anni. Senza considerare la piazza a lui dedicata nella capitale del Berlusconismo e il francobollo che verrà emesso a giugno, per citare alcune delle cose che noi ventenni abbiamo fatto.
Il modo migliore per ricordare Enrico Berlinguer è metterlo in pratica, anzitutto per il modo di fare e intendere la politica: che non vengano a farmi la lezioncina quelli che mi hanno preceduto nel recensire questo film che la gioventù di oggi sarebbe bruciata e che in Italia non ci sono giovani che si ricordano chi è Berlinguer, perché sono loro i primi che negli ultimi 20 anni hanno espulso e rimosso Enrico Berlinguer dalla loro azione politica. Senza contare che dei quasi 400mila iscritti a enricoberlinguer.it più di un terzo ha meno di 30 anni.
Anche perché, se la maggior parte dei miei coetanei non sa nulla, qualche responsabilità la generazione del dopo-Berlinguer ce l’avrà pure. E in questo, va detto, Veltroni fa autocritica, cosa che gli rende onore. La fa fare esplicitamente a Tortorella: esaurita la spinta propulsiva del PCI, dopo la morte di Berlinguer, il vecchio gruppo dirigente aveva nominato Natta come segretario di transizione nella speranza che i quarantenni di allora potessero ridargli slancio e linfa vitale una volta pronti, in sintesi senza buttare il bambino con l’acqua sporca. E’ noto come andò a finire: si son tenuti l’acqua sporca e hanno buttato via il bambino.
Aldilà di questa parentesi contro il giornalismo italiano (come è noto, io non amo lui e lui non ama me, prova ne è che il libro più venduto su Berlinguer è tale senza aver avuto una recensione stampa), se volete farvi un bel regalo, se volete tornare, anche se solo per 117 minuti, a respirare un po’ d’aria pulita, andate a vedere “Quando c’era Berlinguer”. E’ ben distribuito, ci potete andare il mercoledì che il biglietto costa meno e, cosa fondamentale, portateci gli amici a cui sentite spesso pronunciare l’infausta espressione: “Sono tutti uguali“.
Non è vero, non è stato così, Berlinguer ne è la prova, e grazie a Walter Veltroni per averne portato la plastica dimostrazione sul grande schermo.
Esiste un modo diverso di fare politica, basta ricordarselo. La funzione di noi con il vizio della memoria è proprio questa: ricordare a chi ha dimenticato o non ha proprio conosciuto. E per assolvere a questo compito, non serve essere grandi uomini come è stato Enrico Berlinguer: basta fare il proprio dovere di cittadini della Repubblica.
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