Matteo Renzi stamattina ha dichiarato all’assemblea Copres che riunisce i presidenti di Confindustria europei che ora che l’art.18 non è più un ostacolo, non ci sono più valide ragioni affinché un’azienda estera non investa in Italia. Non ero in sala, ma se fossi stato tra i presenti non avrei potuto trattenere le risate a crepapelle, perché davvero a questo punto c’è da chiedersi se il segretario del Partito Democratico ci è o ci fa o semplicemente ci prende tutti per i fondelli.
Lui stesso del resto sosteneva che l’art.18 non era un problema nemmeno 2 mesi fa, salvo poi fare marcia indietro (in una tipica giravolta berlusconiana) e trasformarlo nella causa di tutti i mali dell’economia italiana. Quasi patetico appare il suo intervento a Servizio Pubblico di un paio d’anni fa, quando in veste di rottamatore andava assicurando che tutti gli imprenditori che conosceva lui non chiedevano l’abolizione dell’art.18.
Anche perché la possibilità di licenziare senza giusta causa (perché di questo stiamo parlando) è proprio l’ultima cosa che un’azienda straniera mette nel conto quando decide di investire in Italia: i problemi sono ben altri, come la presenza di un network criminale che impone il pagamento del pizzo alle organizzazioni mafiose operanti sul territorio italiano (senza distinzione di regione), oltre che la tangente al politico a cui loro garantiscono i voti in cambio dei lauti sub-appalti che poi l’imprenditore dovrà concedere alle imprese mafiose, se vuole lavorare.
Il costo della criminalità organizzata (mafiosa e non) è il principale ostacolo agli investimenti stranieri in Italia, assieme alla lentezza indecente dei processi civili e penali, alla burocrazia asfissiante (concausa dell’elevato tasso di corruzione nell’amministrazione pubblica e negli organi elettivi) e a un fisco esoso e inefficiente, che non traduce le tasse versate in beni e servizi come in qualsiasi altro welfare state del mondo, questi sono i principali problemi dell’Italia.
Altro che art.18, la cui rimozione è solamente una bandierina ideologica da sventolare nella più grande strategia di riposizionamento al centro, e quindi a destra, del Partito Democratico. Le vere riforme che servono al Paese sono semplici: assicurare giustizia ai cittadini in tempi certi e celeri, fare andare in galera corrotti e criminali, ripulire le liste elettorali e i partiti dai personaggi ambigui e chiacchierati prima che lo facciano i magistrati, liberare quelle risorse stimate tra i 250 e i 500 miliardi che ogni anno vengono risucchiate dal network criminale formato da politici corrotti, imprenditori collusi e criminali mafiosi.
Questo è un vero e proprio programma di rilancio dell’economia italiana e di liberazione del tessuto sociale dalle tossine più maleodoranti dell’età contemporanea. Finché non si vorrà fare questa riforma morale dello Stato e dell’Economia, qualsiasi altro intervento diventa un vuoto vaniloquio di slogan pubblicitari che ci avvicinano ogni metro di più sull’abisso del fallimento anzitutto politico.
Perché quando lo Stato degrada, poi al popolo sovrano viene in mente di affidarsi all’Uomo della Provvidenza di turno. La storia ci insegna che non è una buona idea e non è il caso che si ripeta. Perché nel caso non l’avesse capito il premier, l’uomo della Provvidenza non sarebbe lui in quel caso, ma qualcuno di molto peggio. Che forse non riaprirà i forni ad Auschwitz, ma seppellirà definitivamente le nostre coscienze e la nostra libertà in un mondo di cartapesta dove le Mafie la faranno da padrone.
La domanda quindi è: perché Matteo Renzi non porta fino in fondo l’unica riforma che lo consacrerebbe nei libri di storia?